Di Anna Villechenon. Le Monde (23/01/2015). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo.
Dal 7 al 9 gennaio scorsi, il carcere di massima sicurezza di Condé-sur-Sarthe ha vissuto al ritmo delle crisi di gloria di alcuni detenuti esaltati dagli attacchi terroristici parigini. Tuttavia, secondo Emmanuel Guimaraes, da due anni agente di custodia nel penitenziario, “il rifiuto dell’autorità e dei valori della Repubblica” da parte di quei detenuti che si dicono musulmani è lungi dall’essere una novità. Questo tipo di incidenti sembra legato molto ai fatti d’attualità, come le tensioni scoppiate in occasione dell’ultimo conflitto israelo-palestinese a Gaza, spiega Guimaraes.
Il resto del tempo, le tensioni tra detenuti, soprattutto negli spazi condivisi, sono diventate banali. In diverse prigioni francesi, gli agenti raccontano gli stessi aneddoti: le vessazioni inflitte a chi fuma o a chi ascolta la musica; gli appelli alla preghiera; gli incitamenti a leggere il corano; il proselitismo ai detenuti più isolati. A forza di vedere conversioni e radicalizzazione nel carcere, Guimaraes parla dell’islam in prigione come “una sorta di moda”. “Alcuni ci dicono che Allah ci punirà, anche se non sono musulmani. Altri sono solo arrabbiati, altri ancora voglio avere dei privilegi”, racconta l’agente. “Tuttavia, la maggior parte si converte per starsene in pace”, dichiara l’agente con un tono d’ovvietà.
Liberato da un anno, Franck Steiger ha scontato sei anni in otto diverse prigioni francesi. Ateo, ha detto di aver vissuto i suoi anni di detenzione “in minoranza”. “I musulmani hanno il monopolio. Per non avere problemi, molti si convertono per far parte della banda”, afferma. Secondo Steiger, le condizioni di prigionia sono determinanti: “La mancanza di rispetto, le violenze, le misure di ritorsione: tutto questo produce l’odio” e la voglia di fare ricorso alla religione, afferma con rabbia.
Per Missoum Chaoui, cappellano carcerario in Ile-de-France, e per gli agenti di custodia, il “pericolo” è l’assenza di un referente musulmano in un’istituzione che lascia aperta la strada agli “imam autoproclamati”. La religione diventa per molti un mezzo per porsi al centro di un universo carcerario in cui molti detenuti non hanno alcun riparo. “Si trovano in uno stato di debolezza e precarietà, hanno bisogno d’ascolto e di disciplina per non andare alla deriva”, commenta Chaoui. “Alcuni sono più psichiatri che islamisti. I radicali sono molto pochi” e non rappresentano affatto i musulmani di Francia. Secondo il ministero della Giustizia, gli effettivi sospettati sono 152, per la maggior parte in Ile-de-France.
In quattro anni, Abdelhafid Laribi, cappellano permanente presso il carcere di Nanterre, dice di non essersi mai confrontato con nessuno di loro: “C’era un convertito che non aveva alcuna nozione di base dell’islam. Ho provato a parlare con lui, ma non ha voluto capire. Non è mai più venuto. In questi casi, non si può fare nulla, solo evitare che altri cadano in questo radicalismo”, racconta. Quando invece incontra chi “vacilla”, allora si tratta di “seminare il dubbio nello spirito, evocare altri punti di vista, con pazienza e pedagogia, per convincerli”, spiega Laribi.
A gennaio, i cappellani carcerari musulmani erano 182, contro 680 cattolici e 71 ebrei. La loro presenza è stata incrementata negli ultimi due anni “al fine di tranquillizzare la detenzione e diffondere un islam illuminato”, ha indicato il ministero della Giustizia. Altri 60 cappellani verranno reclutati nell’arco dei prossimi tre anni. “Manca la volontà politica, mentre noi siamo là per evitare il radicalismo. Se la situazione non cambia, peggiorerà”, lamenta Laribi.
Anna Villechenon è una giornalista di Le Monde.