Di Maya Gebeily. Now Lebanon (27/05/2014). Traduzione e sintesi di Cristina Gulfi
“Amo la morte. Ha un ché di confortante”, dice Adb Hakwati, con i capelli crespi e gli occhi scavati. Parla con fiducia, nonostante le sue parole abbiano un ché di inquietante. “La morte ed io abbiamo un rapporto molto stretto ora”.
Hakwati, attivista siriano e regista, descrive così i suoi sentimenti in “Falso allarme”, il docu-film che racconta, attraverso testimonianze e filmati, come la rivoluzione siriana sia degenerata in qualcosa che i suoi fautori non riconoscono più. Alle immagini delle prime gioiose manifestazioni si affiancano quelle più recenti di città distrutte, accompagnate da una serie di interviste ad attivisti – alcuni dei quali sono ancora vivi, mentre molti altri sono stati uccisi o si trovano in carcere.
Secondo il regista Firas Zbib, il film è stato pensato come racconto, ma si è evoluto nel tempo. Il progetto originario prevedeva una decina di storie da girare all’interno della Siria. Poi la situazione è peggiorata e non era più possibile entrare in sicurezza nel Paese, né raggiungere i siriani che avrebbero dovuto prendere parte al film. “Alla fine, coloro che avrebbero dovuto fare le riprese sono diventati loro stessi i protagonisti, mentre le storie sono quelle che stavano filmando e vivendo allo stesso tempo”, afferma Zbib.
Nato dalla collaborazione tra il think thank arabo Menapolis e la casa di produzione no-profit Al-Share’, “Falso allarme” è stato proiettato ad Hamra per un pubblico ristretto, composto da siriani e libanesi legati in vario modo al film e ai suoi personaggi. Eppure, alla domanda se il documentario è “dei siriani, per i siriani”, i realizzatori rispondono di no.
“È un film per tutti”, dice il produttore esecutivo Marwan Maalouf. “È umano, perché racconta la storia di qualsiasi conflitto”. Zbib, invece, ha una posizione diversa: “Non mi importa chi sia il pubblico. Il film è stato fatto perché ci sono storie che credo meritino di essere raccontate”. È proprio questa duplice prospettiva – vivere la storia e, in quanto regista, sentire di doverla raccontare – che rende il documentario così profondo”.
In una lunga scena di “Falso Allarme”, Maha, giovane attivista, racconta di quando è tornata nelle strade di Aleppo dove suo marito Mustafa è stato ucciso. “Cercavo la sua anima”, dice. Piange, ma durante tutto il suo racconto, inspiegabilmente, sorride: “Pensavo, devo solo girarmi e lui ci sarà”.
Nonostante la presenza pervasive della morte, nel film ci sono immagini di gioia altrettanto potenti. Come rivela Hakwati, infatti, continuare a sorridere di fronte a tale orrore è diventato uno stile di vita. Uno degli aneddoti più divertenti riguarda l’origine del titolo: una donna sembrava dover partorire da un momento all’altro, così Hakwati e i suoi amici l’avevano accompagnata al più vicino ospedale da campo, sotto una pioggia di bombe. Dopo aver atteso con ansia per più di un’ora, riecco la donna col suo pancione: “Falso allarme”, disse lei alzando le spalle.
Dovendo spiegare perché sia stata scelta proprio questa frase per rappresentare l’intero film, Hakwati prima si ferma a pensare, poi ride sommessamente: “Se fossi coraggioso, andrei dal regime e mi consegnerei dicendo che questa non è la mia rivoluzione. Siamo scesi in strada credendo nella vita, ma si è rivelato tutto una bugia. Sì, la rivoluzione è una bugia”.
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