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Egitto: tre generazioni di terrorismo

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Di Rabha Allam. Al-Ahram Online (17/08/2015). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo.

Una delle manifestazioni più eclatanti del terrorismo in Egitto è stato l’attentato dei fondamentalisti islamici al presidente Anwar Sadat, l’inizio di un piano per l’ascesa al potere che prevedeva inoltre l’instaurazione di un regime di disordine pubblico, soprattutto nell’Alto Egitto. Per le due maggiori formazioni terroristiche di allora, Al-Gamaa al-Islamiya e Al-Jihad, l’obiettivo finale era instaurare uno Stato islamico e islamizzare la società. Il governo, in risposta, ha lanciato una dura campagna repressiva, con centinaia di sospetti militanti o simpatizzanti dei due gruppi arrestati. Negli anni ’80 e ’90, ispirate dalla rivoluzione iraniana del 1979, le organizzazioni terroristiche hanno tentato di instaurare il proprio modello di stato islamico attraverso numerosi e sanguinosi attentati.

La strategia del governo era intensificare la repressione (anche attraverso ripetute violazioni dei diritti umani), incoraggiando al contempo il dialogo tra l’università islamica Al-Azhar e i capi detenuti di Al-Gamaa al-Islamiya su questioni come la legittimità dell’uso della violenza all’interno di una società musulmana e il dilemma del takfir (ovvero la qualifica di “miscredente”), arma quest’ultima molto usata dai terroristi. Intanto, privati di molti esponenti di spicco e intimoriti da eventuali reazioni di Al-Azhar, i vertici di al-Gamaa al-Islamiya hanno avviato un processo di revisione ideologica e, nel 1997, proclamarono il cessate il fuoco. Una soluzione che non è durata a lungo, poiché qualche mese dopo il massacro di Luxor ha provocato la morte di decine di persone, suscitando perplessità sulla strategia di stabilizzazione attuata fino ad allora. Nondimeno, la nuova stretta repressiva ha indotto Al-Gamaa al-Islamiya a rinunciare definitivamente alla violenza e i militanti di al-Jihad a rivolgere la propria ira contro obiettivi stranieri. Dalle fina di quest’ultimo gruppo vengono infatti molti combattenti di al-Qaeda che hanno commesso attentati in Africa e in Yemen tra il 1998 e il 2000.

Al-Qaeda ha rappresentato quindi un punto di svolta. Fortemente decentrata, priva di gerarchie (più simile a un franchising internazionale) e con una minor cura per l’indottrinamento dei militanti, anche a causa di un legame meno stretto con i vertici. Dal 2004, i gruppi legati ad Al-Qaeda hanno iniziato a compiere attentati in Egitto, seguendo un percorso molto diverso dalle precedenti formazioni. Gli attacchi si concentravano nel Sinai, non più nella valle del Nilo, e manifestavano una protesta contro la politica estera del Cairo e i suoi “alleati” (in particolare Stati Uniti e Israele), senza più essere parte di un piano di sovversione. Inoltre il bacino di reclutamento era costituito da coloro che, per motivi economici o politici, erano furiosi per l’eccesso di repressione, a prescindere dal loro vissuto.

Dopo la deposizione di Hosni Mubarak nel 2001, i gruppi jihadisti hanno ripreso la loro attività nel Sinai (distruggendo i gasdotti che riforniscono Israele), nonostante i tentativi di repressione. Intanto, gran parte del paese chiedeva riforme democratiche, rigettando le forme violente di cambiamento e limitando dunque le possibilità di proselitismo. Anche per questo molti terroristi sono partiti per combattere contro il regime siriano, favoriti in parte dalla “tolleranza” dell’ex presidente Mohamed Morsi.

Nel novembre 2014, Ansar Bait al-Maqdis, il maggior gruppo terroristico attivo nel Sinai, ha infine proclamato fedeltà a Daesh (ISIS). Daesh è dunque l’ultimo anello di una catena lunga almeno tre generazioni. Si tratta di una versione ibrida di Al-Qaeda: una formazione decentrata all’interno di uno “Stato” rigidamente gerarchico. Una struttura che ha permesso loro di conquistare diversi territori di Siria e Iraq, imponendo il proprio regime.

In Egitto, la vicinanza con la Libia, fonte pressoché inesauribile di armi, e l’insoddisfazione latente nei confronti delle autorità ha prodotto nuove violenze, che spesso hanno colpito la minoranza copta. La strategia della forza, dunque, da sola non basta a fermare il terrorismo. Servirebbe invece una soluzione sociale al malcontento popolare.

Rabha Allam è ricercatrice presso il Centro di Studi Politici e Strategici al-Ahram.

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