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Di cosa tratta veramente il film “Much Loved”

much loved

Di Lamia Berrada-Berca. Al Huffington Post Maghreb (14/09/2015). Traduzione e sintesi di Chiara Cartia.

Il film “Much Loved” è stato apprezzato dal pubblico e ha vinto premi quale il Valois d’Oro al festival del cinema di Angoulême.

I veri temi affrontati dal film sono passati in secondo piano a causa della violenta polemica di cui è stato oggetto. È una cronaca dall’energia bruta che ritrae con uno sguardo realista il mondo della prostituzione, organizzandosi su due piani.

Sul primo, lo spettatore viene investito dal racconto crudo delle uscite notturne di tre prostitute, Noha, Randa et Soukaina, che si trasformano in guerriere della notte. Questo livello si alterna al secondo, quello della vita quotidiana delle ragazze, tra piccoli litigi assurdi che esacerbano le tensioni e lunghe mattinate con la televisione accesa.

In questione è proprio l’eterno passaggio da una dimensione all’altra, il dovere che ognuna di loro ha di ricominciare lo stesso lavoro di giorno in giorno, in un meccanismo che non lascia sosta e nel quale il regista immerge lo spettatore sin dalla prima inquadratura, con un beat musicale un po’ pesante, lasciando intravedere a volte degli squarci di profondità intima.

Per ognuna delle protagoniste esiste un giardino segreto, una speranza folle, un sogno che  aiuta ad andare avanti, oltre all’hashish e all’alcool.

Giocando su questo rapporto binario che mette in scena due colori, il colore caldo e artificiale delle scene notturne in cui i corpi si attivano e quello grigio del quotidiano in cui i corpi si addormentano, Nabil Ayouch riesce a rivelare delle verità complesse.

All’uscita del film non ci si ricorda solo delle feste orgiastiche organizzate dai sauditi o della città di Marrakesh che si offre come un corpo vibrante di energia erotica urbana, ma piuttosto un quadro d’insieme, dove la prostituzione si staglia su un fondo di drammi tristi e di violenza taciuta. Il regista evoca la dissociazione tra corpo e anima, tra giorno e notte, tra sogni e realtà ma anche quella tra le prostitute e la loro famiglia.

La telecamera cerca di abbracciare il linguaggio del corpo ma anche quello delle espressioni del viso, di far contrastare l’impudicizia dei corpi con il pudore dello spirito.

Così scopriamo Randa, che ha visto il padre per l’ultima volta a 4 anni, carenza che le impedisce di costruirsi un’identità presente. Poi c’è Soukaina, con i suoi accessi di romanticismo ingenuo, Noha donna libera e responsabile, amazzone del sesso, che nasconde però tutta una vita di delusioni e di abbandoni e infine Hlima che arriva nel trio portando il suo fardello di non detti e di miseria affettiva.

A commuovere nel film è il desiderio di vita e di amore che va al di là delle lacune sociali che si portano dietro queste donne.

Il cinismo non risalta nei personaggi ma nelle situazioni che devono affrontare, nel sistema dove tutto si vende e tutto si compra, purché gli appetiti più bassi siano soddisfatti.

Alla mercificazione dei corpi, si aggiunge la prostituzione morale che ingloba tutti quelli che vendono senza scrupoli la propria coscienza.

D’altra parte il regista ha voluto rappresentare un sistema di prostituzione che trasgredisse i canoni rovesciando i rapporti uomo/donna: sono le donne ad avere il potere perché vengono pagate per far gioire e scelgono appena possono il proprio cliente. Il potere sta anche nella parola che usano con humour e libertà, ecco perché la scelta di farle parlare in dialetto ha scioccato una parte del pubblico, non tanto per quello che viene detto ma perché viene crudamente espresso da una donna che si prende la piena responsabilità di quello che afferma.

Il film lascia capire anche come la prostituzione si iscriva in una situazione in cui la sessualità non può essere pienamente realizzata in coppia e che le pulsioni sessuali non sono che un modo per il corpo di tradurre le frustrazioni del vissuto.

Il regista parla anche dei problemi legati all’identità omosessuale, spesso rinnegata e trasformata in sofferenza interiore.

Il credo che risuona alla fine del film è che la libertà ha la meglio su tutto, anche se il prezzo da pagare è l’emarginazione, la messa al bando dalla società e una forma di solitudine a cui la legge della solidarietà femminile cerca di sopperire.

Lamia Berrada-Berca è una professoressa di Lettere moderne e una giornalista.

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