Di Hussain Abdul-Hussain. Now Lebanon (17/04/2014). Traduzione e sintesi di Angela Ilaria Antoniello.
Resistenza è un termine elusivo. Perché implica “reazione”, il suo significato è incompleto senza un oggetto. Negli anni ’90, significava resistere all’occupazione israeliana nel sud del Libano. Ma la definizione data da Hezbollah è andata oltre. Il vice segretario generale del partito, Naim Qassim, ha spesso chiamato alla creazione di uno “stato di resistenza” capace di contrastare una “oppressione mondiale”. Anche la Guida Suprema dell’Iran, Ali Khamenei, sembra essere troppo votato a questo termine tanto che recentemente lo ha utilizzato per coniare l’espressione “economia di resistenza”.
Con un tweet, Khamenei ha fatto sapere che è un dovere di tutti rendere l’Iran più solido, impenetrabile e non influenzabile agli occhi dei nemici. Tuttavia, oltre ad essere un’economia contro i nemici, cos’è esattamente l’economia di resistenza? Secondo Khamenei non si tratta austerità, anzi: l’implementazione di queste politiche porterebbe comfort e benessere. Di primo acchito, le dichiarazioni di Khamenei sembrano ragionevoli. Eppure, per quanto possano sembrare sagge, le pontificazioni di Khamenei sull’economia sono superficiali e obsolete.
Secondo Khamenei, questo tipo di economia non può essere ostacolata da provocazioni globali. Si tratta di un’economia intro-productive, ma non introversa; fondata sulla gente e sulla conoscenza, senza che ciò implichi che gli artigiani esperti e gli agricoltori non debbano ricoprire alcun ruolo. Se suona incomprensibile è perché lo è. Khamenei probabilmente intendeva dire era che voleva che l’Iran diventasse un’economia capace di prosperare indipendentemente dell’economia mondiale, un’idea diffusa durante l’era sovietica insieme al modello socialista dell’autosufficienza nazionale. Questi modelli sono falliti in passato e, a maggior ragione, fallirebbero nel mondo altamente interconnesso in cui viviamo oggi.
Ma Khamenei pensa di avere la risposta: il leader iraniano sembra credere che il suo Paese possa prosperare in un’area che copre poco più del 5% della popolazione mondiale e una quota simile, se non più piccola, della produzione economica mondiale.
Khamenei presenta poi quelli che pensa siano i successi dell’Iran: il numero di studenti universitari è aumentato di 25 volte rispetto all’era Pahlavi; nonostante le sanzioni, ci sono stati progressi nel campo del nucleare, delle cellule staminali, dell’industria della difesa, degli UAV e dei missili. Inutile dire a Khamenei che le università vengono valutate in base alla qualità della loro educazione, che la scienza non si misura dalla capacità di copiare tecnologie già scoperte e che non tutti gli UAV o i missili sono uguali.
Khamenei ha concluso citando le immense risorse naturali, petrolio e gas, del Paese. Questo è, forse, l’unico punto valido nella sua teoria dell’economia di resistenza. Tuttavia, come la Russia e le altre economie fondate sul petrolio, l’Iran può vendere, spendere e fingere di essere una potenza mondiale, ma la realtà è che il potere dell’Iran, come la resistenza di Hezbollah, non è altro che una brutalità mascherata da successi, spesso neppure reali.
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