Di Najwa Barakāt. Al-‘Araby al-Jadīd (04/12/2018). Traduzione e sintesi di Veronica Toschi
Quello che hoprovato guardando quelle terribili immagini dello Yemen raffiguranti bambini ridotti pelle e ossa, cittadini in balìa delle epidemie e della malnutrizione ed edifici distrutti, è stato un senso di colpa e una sofferenza che mi logora.
Il dolore è qui, trasmesso dalle foto che guardo, un dolore che solleva il mondo e non lo lascia più; ma finchè riguarda un unico individuo è giustificato. Ma il dolore è soprattutto là, sullo sfondo, dietro le quinte, là dove “5 milioni di bambini corrono contro il tempo”, dice l’UNICEF. 3 yemeniti su 4 necessitano di cibo, mentre circa 3 milioni già fronteggiano la carestia. “L’inferno dei bambini”: così l’UNICEF ha definito la guerra in Yemen. I numeri parlano da soli; 1.8 milioni di bambini malnutriti e 8 milioni senza acqua potabile; 1.1 milioni di donne incinte daranno alla luce bambini che patiranno le stesse sofferenze delle loro madri, per non parlare dell’assedio, delle epidemie, della povertà, del crollo dell’artigianato locale e della conseguente proliferazione del mercato nero.
Questi sono i dati della tragedia yemenita, che però sembra non smuoverci più di tanto e non lo farà, finchè non saremo in grado di prendere una posizione e finchè il divario economico fra noi e loro sarà abbastanza da non farci vedere la situazione per quella che realmente è. Però in questo cinismo c’è qualcosa che ci spinge a capire chi non vuole vedere, poiché non sempre è facile riuscire a sopportare quella quantità di dolore, di morte e di pene, paese dopo paese, anno dopo anno, continente dopo continente.
Nel suo studio intitolato “ Davanti al dolore degli altri”, che riporta in ordine cronologico le immagini della sofferenza a partire dalle raffigurazioni del Cristo in croce fino alle tragedie e ai genocidi di massanella storia moderna, la ricercatrice americana Susan Sontag ci pone un doppio interrogativo: che significato ha il dolore riportato da una fotografia che, come tale, dovrebbe essere “obiettiva”, e quale tipo di visione si presenta allo spettatore, in un’epoca come la nostra dove le immagini tristi e tragiche “vanno di moda”? Se pensiamo al presente, sembra che le immagini di uno Yemen ferito provochino nello spettatore un senso di “indigestione”, la stessa sensazione di sazietà di chi non vuol vedere altro dopo aver visto le immagini dei bambini siriani morti prima del tempo. Ricordiamoci però che il rifiuto divedere altro equivale a dimenticare e a disinteressarsi verso tutti coloro che non possono ribellarsi; equivale a rubare le loro vite, i loro diritti, e a gettarli nel cestino della storia.
Le immagini dei bambini dello Yemen moribondi e disperati hanno invece tutto il diritto di disturbare i nostri sogni, di farci star male, di smuovere le nostre coscienze; i loro volti disperati di invitarci a riflettere che è il caso di dal loro voce attraverso la nostra visione più cosciente di ciò che guardiamo. Quelle foto infatti ci devono far maturare un senso di responsabilità, ricordandoci che vedere equivale a sapere, e quindi conseguentemente a dire e testimoniare. Come facciamo a non sconvolgerci di fronte a quelle immagini di bambini ridotti a scheletri? Come facciamo a non renderci conto che questo fa parte del presente, che è reale e ingiusto? Come facciamo a non spaventarci di fronte ai numeri, a non terrorizzarci di fronte alla miseria e alla morte inevitabile di queste persone? È come se queste immagini di carestia, assedio e rovina non appartengano al nostro tempo: siamo talmente abituati a suddividere in livelli temporali il dolore, che pensiamo che la carestia sia una piaga del passato e non ci rendiamo conto che invece ancora oggi è combattuta da tante persone che fanno parte di noi, sono la nostra gente, sono nostri fratelli.
Najwa Barakat è una scrittrice libanese. A Beirut ha studiato teatro e cinematografia. Dal 1985 vive a Parigi, dove lavora come giornalista. Ha scritto sei romanzi in lingua araba, tra cui “Ya salam!” e “L’inquilina”.