Di Giusy Regina
C’era una volta palazzo Baroudi, uno dei più bei palazzi di tutta Damasco, più splendido ancora di palazzo Azem, con i soffitti di legno dipinti più raffinati di tutta la città. E c’era una volta la famiglia Baroudi, che in quel palazzo ci viveva. Jiddo era il padrone di casa, insieme a sua moglie Teta, palestinese, divenuta sposa all’età di soli 14 anni.
Poco più che bambina Teta arrivò a Damasco, nella Grande Siria – com’era chiamata allora – un po’ smarrita e timorosa. “Lo sai perché il profeta Maometto si è fermato ad al-Qadam e non è mai entrato a Damasco?” Jiddo aveva guardato Teta negli occhi. “Da lontano, il profeta vide gli splendori della città, ne percepì l’incanto e istintivamente disse: ‘Un uomo dovrebbe andare in paradiso una e una sola volta!’. Ecco perché non volle entrare. Teta aveva sorriso”. Da quel momento ha inizio la vera e propria saga familiare, narrata magistralmente da Suad Amiry. Una storia nella storia, in cui le vite dei personaggi più colorati della famiglia Baroudi – estesa – si incrociano inevitabilmente.
Oh Dio, famiglie! Nessuno avrebbe potuto darmi più sicurezza della mia famiglia. E, se è per questo, neanche più insicurezza e fragilità. Iniziano infatti a mescolarsi da subito, come un vero ipertesto, le storie della timida e ritrosa Teta, del sensuale Jiddo, della tirannica zia Laila, della dolce e mesta zia Karimeh, della “non-ho-mai-voluto-sposarmi-e-neppure-avere-figli” Samia, della fuggitiva Fatima e della teatrale cugina Norma. Sullo sfondo altri personaggi entrano ed escono dalla scena e dagli intrighi.
Damasco ha un inizio ma non ha una fine. È un racconto appassionante in cui realtà e finzione si mescolano, in cui segreti inimmaginabili vengono alla luce, mentre altri restano silenti. E proprio il silenzio spesso diventa protagonista, raccontando il dolore celato in gesti e decisioni che accompagnano tutta una vita. Non c’è parola capace di superare il potere del silenzio. E Norma ne concluse che uno spettacolo può fingere di essere la vita, ma con la vita non sempre si può giocare.
Mai angosciante la scrittura di Suad Amiry, anzi leggera e coinvolgente: più si va avanti nella lettura, più il “film” Damasco prende forma nella testa del lettore. E li vedi proprio lì davanti a te tutti i personaggi e le stanze del palazzo accuratamente descritte e tocchi con mano la nostalgia e l’amore per quella città che un tempo era, semplicemente era tutto quello che adesso non è più. Dal suq al-Hamidiyya alla moschea degli Omayyadi, dal gelato con i pistacchi tritati di Bakdash ai vicoletti stretti: Damasco di una volta insomma. Nel suo cuore nemmeno Gerusalemme, la città che lei stessa sosteneva di aver amato, era stata capace di prendere il posto di Damasco. Perché Damasco è così, una volta che ti entra dentro non ne esce più, un po’ come la famiglia Baroudi, di cui alla fine del libro ti senti parte un po’ anche tu.
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