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Dalla Turchia all’Egitto, i conflitti religiosi territoriali del Medio Oriente

protesta fratelli musulmani, egittodi Jonathan Laurence (Der Tagesspiegel 21/07/2013). Traduzione di Claudia Avolio.

Non è stato solo l’attacco del governo turco agli alberi di Gezi Park ad aver reso i dimostranti così furiosi all’inizio di giugno. È stato anche il piano del primo ministro Recep Tayyip Erdogan per la costruzione di una moschea che ospiti 1500 persone a piazza Taksim. A sua volta in Egitto i manifestanti hanno chiesto per mesi la rimozione del gran imam di Al-Azhar, per poi riferirvisi come all’ “agente dei cristiani”, dopo che ha sostenuto la destituzione di Morsi.

A differenza del dibattito occidentale sulla costruzione di moschee nei pressi di Ground Zero (New York) o a Colonia (Germania), sostengono che in Turchia e in Egitto si vada contro le istituzioni islamiche, piuttosto che mettere in discussione il diritto dei musulmani di costruire luoghi di culto o praticare la loro religione. Una singolare coalizione di contribuenti turchi secolaristi ed egiziani islamisti verte piuttosto sulla separazione di religione e Stato.

La moschea di piazza Taksim è solo una delle 600 che in questi anni sono state costruite dal governo turco, compresa una a Istanbul che ha le dimensioni di uno stadio e vanterà il più alto minareto del mondo. Erdogan ha sottolineato che per la costruzione non ha bisogno né del permesso dei manifestanti né dell’opposizione – e in senso meramente tecnico ha detto bene.

Tuttavia, si tratta qui di un dibattito molto più profondo, che Erdogan e Morsi hanno un tempo accolto con favore mentre si trovavano all’opposizione. Potrebbe essere l’inizio di una discussione più ampia, che i cittadini della Turchia e del Nordafrica hanno evitato da quando gli islamisti hanno preso il potere: Cosa ne sarà dell’ “Islam ufficiale” nel nuovo ordine politico?

Ad oggi in Turchia, in Tunisia e (anche se per poco) in Egitto i partiti al governo non hanno certo inventato l’Islam di Stato: lo hanno ereditato dai loro predecessori. Nel corso di 60 anni è stata usata la supervisione religiosa dello Stato per consolidare l’identità nazionale e incontrare il favore delle confraternite e dei missionari, percepiti come pericolo di Stato. Spesso si tratta dei predecessori ideologici dei partiti islamisti oggi al potere.

Circa un quarto delle 83 mila moschee in Turchia sono state per esempio costruite negli anni ’80. L’AKP di Erdogan è responsabile solo delle ultime 7 mila. Negli anni ’70 in Egitto solo il 15 percento delle moschee erano controllate dallo Stato. Mentre Mubarak era al governo, questo dato è salito al 100 percento, almeno ufficialmente.

Lo “Stato Islamico” di nuovo conio cerca di controllare tutti gli aspetti formali della religiosità dei cittadini. Un’intera classe di impiegati pubblici è responsabilie delle moschee, dei sermoni, dell’educazione religiosa, delle facoltà teologiche e dell’interpretazione del credo da parte degli sheikh. Quando il regime militare è scomparso di scena, si sarebbe potuto ipotizzare che questo costoso apparato repressivo sarebbe collassato di lì a poco. Ma in realtà è successo il contrario.

In Turchia, l’Agenzia per gli Affari Religiosi ha quadruplicato le proprie spese fino a 2,3 miliardi di dollari. I suoi 121 mila impiegati ora rappresentano il sei percento di tutti gli impiegati statali. In Nordafrica nell’ultimo decennio sia i governi islamisti che quelli non islamisti hanno rafforzato lo Stato Islamico – prima e dopo la Primavera Araba. Perché mai gli islamisti tutt’a un tratto accolgono con calore un apparato che solo pochi anni fa era per loro terribile?

Il governo ha offerto loro una nuova prospettiva: si trovano ora a dover difendere la loro propria rivoluzione. In Egitto, Tunisia e Libia i partiti islamisti si propongono ora come informatori contro il salafismo radicale. Morsi ha fatto della lotta interna ai precursori dei sunniti un punto d’onore – precursori tra i quali si trovano anche i resti del vecchio regime. I suoi timori legati al “fianco destro” erano del tutto giustificati, come è stato dimostrato: i suoi acerrimi nemici, i salafiti del partito al-Nour, siedono ora al Cairo coi nuovi leader militari sul podio.

La connessione del gruppo islamista con la religione di Stato va insieme anche alla divisione delle strategie di chi è al potere: per esempio in Marocco, dove gli affari religiosi fanno capo ancora ai “ministeri sovrani” del re. Un dipartimento che ha ben 52 mila impiegati, col budget a più veloce crescita di tutto il governo. Nella vicina Algeria la paura per l’avanzata dei salafiti ha spinto il ministro per gli Affari Religiosi ad assumere migliaia di nuovi impiegati e a cercare di tenere i partiti politici fuori dalle moschee.

Alcuni di questi conflitti territoriali sono importanti per la sicurezza nazionale. I salafiti e gli estremisti, legati ad AlQaeda, hanno sferrato negli anni attacchi armati in tutti questi Paesi. Ma il geloso monopolio della religione degli Stati post-rivoluzione non forza neppure i movimenti religiosi violenti ad esistere al di fuori del riconoscimento statale.

Il risultato è che alcune confraternite oggi traslano la propria influenza in campi assai distanti dal principio di legalità. Dato che non sono ammesse come organizzazioni religiose o partiti politici, non sono dunque tenute a loro volta a giustificare le proprie azioni contro le istituzioni democratiche.

Se lo “Stato Islamico” continua a crescere, senza riformare la propria struttura e rendere il suo statuto inclusivo, sarà immune a realtà sociali e politiche tanto importanti. Coloro che hanno trascorso decenni nella realtà sottostante, ne saranno a conoscenza. Sanno che non è sostenibile né giusto che il monopolio dello Stato mostri in pompa magna la religione della maggioranza e che le minoranze pacifiche siano al contempo difficili da tollerare.

Se i nuovi governanti non riescono a dare una sintesi migliore della religione sostenuta dallo Stato, gli emergenti cambiamenti sociali prima o poi li scavalcheranno. D’altro canto, le forze secolari e liberali dovrebbero stare in guardia e più che chiedere l’abolizione dello “Stato Islamico”, dovrebbero volerne una riforma. Eliminarlo senza un piano per la transizione provocherebbe nell’arco di un secolo la nascita di un settore regolato da forze anarchiche.

Ci sono stati alcuni momenti di riforma: la Turchia e il Marocco hanno mostrato un’apertura verso le donne, le minoranze linguistiche e quelle religiose. Ma non si è ancora realizzato abbastanza. Un equilibro del pluralismo religioso sembra ancora lontano. Il governo turco – ed i Paesi nordafricani che ne seguono l’esempio – non possono accusare i loro oppositori di islamofobia, quando sono proprio i loro correligionari ad affollare le manifestazioni.

Jonathan Laurence è docente presso il Boston College ed è autore del libro “The Emancipation of Europe’s Muslims” (Princeton 2012).

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