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Che gli Usa taglino gli aiuti all’Egitto

L’opinione di al-Quds al-Arabi (10/02/2012). Traduzione di Carlotta Caldonazzo

Le relazioni tra Usa ed Egitto attraversano una vera cris, che tutti i tentativi e le comunicazioni ufficiali statunitensi non sono ancora riusciti ad arginare. Né all’orizzonte si scorgono indizi del contrario e non è inverosimile un peggioramento della situazione nei prossimi mesi o nelle prossime settimane.

La crisi d’altra parte è ben più profonda della vicenda specifica delle organizzazioni non governative che ricevono finanziamenti Usa. Una questione che rappresenta la punta dell’iceberg che nasconde una collisione che ha iniziato a svilupparsi con la prima scintilla della rivolta egiziana, arrivando a esplodere con la caduta di Hosni Mubarak.

Gli Usa non hanno mai parteggiato per il successo della rivolta egiziana e per gli sviluppi che ora sono davanti agli occhi di tutti. Dunque non sono soddisfatti del ruolo della giunta militare egiziana, che si era schierata con il popolo egiziano e con la richiesta legittima di cambiamento, costringendo il presidente Mubarak a dimettersi e a consegnare il potere al Consiglio supremo delle forze armate (Csaf) guidato dal feldmaresciallo Mohamed Hussein Tantawi.

L’ex primo ministro britannico Tony Blair, teorizzatore o analista politico della nuova ideologia coloniale, ha riassunto la posizione degli Usa e del mondo occidentale a proposito delle rivolte arabe quando ha detto che ogni cambiamento deve essere controllato e disciplinato secondo gli interessi economici e strategici dell’Occidente. Queste parole sono state da lui pronunciate con un occhio rivolto all’Egitto, cardine principale della politica estera statunitense in Medioriente.

La strategia occidentale nella regione si basa su due pilastri fondamentali: Israele forte e petrolio a buon mercato. Il regime di Mubarak ha svolto un ruolo importante nel promuovere questa strategia. Anzitutto ha partecipato e sostenuto tutte le guerre statunitensi, dall’occupazione dell’Iraq e del Golfo (la liberazione del Kuwait) alla guerra al terrorismo in Afghanistan. Inoltre ha vigilato sul mantenimento degli accordi di Camp David, che impongono la normalizzazione politica e la protezione dei confini israeliani soprattutto nel Sinai.

L’amministrazione Usa vorrebbe che il Csfa continuasse a svolgere lo stesso ruolo designando come successore di Mubarak l’ex capo dei servizi segreti, il generale Omar Suleiman. La giunta militare, nonostante i suoi tentativi, non è riuscita a farlo ed è stata costretta a cedere alla volontà popolare che lo ha respinto come simbolo del detestato regime di Mubarak.

Le potenti armi nelle mani degli Usa sono gli aiuti militari inviati all’esercito egiziano, per l’ammontare di un miliardo e 200 milioni di dollari l’anno. Si prevede dunque che tali aiuti si interrompano nel caso in cui si prolunghi la crisi nelle relazioni tra i due paesi. Diverse voci che confermerebbero questa ipotesi si sono d’altra parte sollevate nel Congresso Usa, dominato dai sostenitori di Israele che chiedono di agire con urgenza.

La giunta militare egiziana dal canto suo ha adottato un tono di sfida, annunciando per bocca del suo portavoce che non si sarebbe piegato alle pressioni statunitensi sul taglio degli aiuti militari e che avrebbe lasciato procedere i processi contro alcune organizzazioni della società civile finanziate dagli Usa. Ha ribadito inoltre la minaccia di divulgare un documento di una di queste associazioni che tratta la divisione dell’Egitto in quattro stati, oltre alle mappe che indicano la posizione di chiese e caserme.

L’Egitto non dovrebbe piegarsi alle pressioni statunitensi e il taglio degli aiuti militari potrebbe giocare a suo favore, liberandolo da questo pesante fardello e restituendo ad esso la sua sovranità, la sua indipendenza e il suo ruolo di primo piano nella regione e nel mondo, lontano dall’egida degli Usa.