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Da Calais al Regno Unito: che ne sarà dei bambini rifugiati?

C'è bisogno di un lavoro congiunto tra Gran Bretagna e Francia per rispondere anche alle esigenze dei rifugiati adulti che sono ancora nel campo di Calais

Di Yara al-Wazir. Al-Arabiya (23/10/2016). Traduzione e sintesi di Giusy Regina.

Il primo gruppo di bambini rifugiati ha finalmente raggiunto il Regno Unito dopo mesi di agonia nel campo profughi di Calais in Francia. La questione dei minori del campo di Calais ha suscitato non poche discussioni sin dal novembre 2015 e le domande che più risuonavano riguardavano – e riguardano – il motivo per cui ci è voluto tanto tempo per il governo britannico per reinsediare questi bambini nel Regno Unito e che cosa accadrà alle centinaia che invece rimangono ancora intrappolati nel campo.

Dal punto di vista legale, i bambini hanno due “percorsi” per raggiungere il Regno Unito: il primo la Convenzione di Dublino dell’Unione Europea, che prevede il ricongiungimento dei bambini alla loro famiglia, se quest’ultima è già nel Regno Unito. Il secondo invece è il Dubs Amendment del governo britannico circa la legge sull’immigrazione. La base giuridica è certamente lì, ma l’azione legale che dovrebbe corrispondere è chiaramente carente.

La decisione di spostare i bambini in questo momento in particolare è più strategico che mai. Dubito fortemente che al governo di Teresa May importasse che stesse arrivando l’inverno: la tempistica è dovuta piuttosto alla decisione di chiudere il campo definitivamente e completamente. Con i minori fuori dal campo, anche i media perderanno interesse nel raccontare e denunciare questa situazione. Se il governo decidesse di trasferirli in un altro campo o di farli tornare nei loro Paesi di origine, la speranza è che se ne parlerebbe di meno e la questione avrebbe una minore eco internazionale e soprattutto ci sarebbe meno pressione sui governi.

La reazione di alcuni gruppi di estrema destra nel Regno Unito per il reinsediamento dei bambini rifugiati è stata a dir poco disgustosa: alcuni hanno richiesto le “prove dentali” e i “test di riconoscimento al computer” che confermino la loro età, mettendo in dubbio così il loro essere effettivamente minorenni. Mi chiedo dunque che fine abbia fatto la compassione.

L’approccio a breve termine deciso per le centinaia di bambini che sono ancora nel campo a Calais è quello di accelerare il processo di ricongiungimento con le loro famiglie. Questa decisione dovrebbe includere il supporto sia legale che emotivo, per aiutare i bambini a capire che cosa li attende al di là del confine. Una volta giunti nel Regno Unito, essi dovranno essere integrati nel sistema di istruzione del Paese e ricevere un sostegno psicologico continuo.

Inutile ribadire quanto la mancanza di sostegno pubblico alla decisione del governo di fare finalmente ciò che è sostanzialmente giusto e umano rischi di scoraggiare il governo stesso. Il governo di Teresa May deve essere quindi coraggioso e non soccombere di fronte ad alcuni punti di vista estremi che, mettendo in discussione l’età di un bambino, gli negano il diritto di vivere una vita dignitosa.

A lungo termine, sia il Regno Unito che la Francia dovranno lavorare insieme per rispondere alle esigenze dei rifugiati adulti che rimangono nel campo di Calais. L’età, il luogo di nascita e la stabilità politica del Paese di origine di una persona non dovrebbero essere ostacoli al diritto fondamentale di un essere umano di vivere una vita dignitosa.

In ogni caso i miei sentimenti sono bloccati tra l’incudine e il martello, tra il voler applaudire il governo britannico per aver avuto coraggio in questa decisione e tra il voler sottolineare invece quanto questa scelta fosse comunque l’unica possibile da un punto di vista umano, giusto e legale.

Yara al-Wazir è un attivista umanitaria e fondatrice di The Green Initiative ME. Scrive su Al-Arabiya.

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