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La battaglia di Mosul tra identità, diritti e futuro in Iraq

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La sconfitta di Daesh in Iraq potrebbe non significare affatto la fine delle ostilità e il riconoscimento dei diritti della popolazione

Di Shafiq Nazim al-Ghabra. Al-Hayat (20/10/2016). Traduzione e sintesi di Antonia M. Cascone.

La battaglia di Mosul sarà difficile per tutti, specialmente per i suoi abitanti. Se, da una parte, spianerà la strada per la recessione dello “Stato Islamico”, allo stesso tempo questa battaglia riflette la profonda incertezza e complessità della questione irachena.

Per rendersene conto basta analizzare la natura delle forze dispiegate all’attacco e delle alleanze temporanee tra le varie fazioni: i peshmerga curdi alleati con la Turchia, l’esercito iracheno appoggiato da Stati Uniti e Iran, le milizie della Mobilitazione Popolare a rappresentanza della Guardia Rivoluzionaria iraniana, truppe di tribù irachene e forze americane, francesi e occidentali a condurre raid aerei.

Tuttavia questa battaglia non porrà fine alla violenza e alle problematiche che hanno portato all’emergere di Daesh (ISIS) in Iraq, e qualsiasi soluzione militare è un’arma a doppio taglio. L’amministrazione di Mosul dopo la sua liberazione sarà oltremodo difficoltosa in virtù della natura sunnita della città: la liberazione potrebbe ripristinare la sunna come blocco del meccanismo politico iracheno, o potrebbe creare nuove milizie e nuove ondate di violenza.

Quella di Mosul sarà la sconfitta di un gruppo armato che non era neppure in lista quando gli Stati Uniti attaccarono l’Iraq nel 2003, ma la guerra ha dato origine a nuovi poteri e ha spinto ad allontanarsi dagli obiettivi dichiarati. La sconfitta di Daesh a Mosul, inoltre, non implica affatto l’epilogo del pensiero dell’organizzazione, in quanto ciò richiederebbe, più che una vittoria militare, un progetto basato su principi di libertà e giustizia che vada a coinvolgere tutta la regione araba.

Dopo l’occupazione statunitense dell’Iraq nel 2003, la situazione irachena è stata completamente sovvertita e tutto il sistema legato all’esercito e alla sicurezza è stato smantellato. Se l’equazione di Saddam Hussein non era giusta, altrettanto non lo è stata quella americana, che ha lasciato gli iracheni senza uno Stato, subordinati prima all’invasore e poi alla crescente influenza iraniana. Dopo il ritiro degli Stati Uniti nel 2014, infatti, lo scenario è ulteriormente cambiato con la fine dell’equilibrio nelle aree sunnite che l’amministrazione americana aveva cercato di realizzare nella sua ultima fase e l’isolamento della loro popolazione.

Il futuro dell’Iraq è quanto mai a rischio e, se l’Iraq stesso non comincerà ad amministrare le sue province secondo i principi di libertà e democrazia, la storia di violenza e distruzione si ripeterà. Ognuna delle fazioni irachene, dopo tutto questo spargimento di sangue, ha il diritto di vivere con dignità, nel pieno riconoscimento delle diverse identità culturali, regionali e locali.

La questione dell’identità è una questione ben spinosa nel mondo arabo: l’esperienza ci dice che spesso lo Stato nazionale arabo ha manipolato le contraddizioni tribali e settarie e che ha rifiutato di riconoscere le naturali esigenze diverse di ciascuna comunità. Solo oggi scopriamo quanto il problema arabo sia diventato complesso. Questi problemi richiedono soluzioni che ci porteranno, con ogni probabilità, ad accettare diversi gradi di decentralizzazione e federalismo politico e amministrativo.

La battaglia di Mosul non è che un riflesso della grande battaglia che si sta combattendo in tutta la regione. Lo Stato iracheno riconoscerà i diritti della regione e della città che sarà liberata? Come sarà questo riconoscimento? O piuttosto seguirà una politica di terra bruciata e pulizia confessionale che infiammerà guerre religiose e settarie ancor peggiori?

Shafiq Nazim al-Ghabra è professore di Scienze Politiche all’Università del Kuwait.

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