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‘-B-R, attraverso le lacrime

alhambraLa incontri e non ti fermi, la leggi, la riconosci e passi oltre. La parola ‘abra, quel minuscolo avverbio o preposizione che vuol dire proprio “oltre, attraverso”. Lei stessa ti dice di passare, di attraversare (‘abara). Eppure, nella II forma, ti chiede subito di valutare (‘abbara). Un verbo tanto legato al movimento che se seguito da bi- diventa “traghettare qualcosa al di là”, se invece trova ad affiancarlo ‘an si trasforma in “esprimere”. Si veste di prefissi caparbi, indossa la sua VIII forma, i’tabara, e ti fa “considerare, esaminare”, con sempre maggior piglio. Tanto che, impugnata la spada del pensiero sottoforma di bi-, ti consente di “trarre lezione, imparare da”.

Il passaggio, l’insegnamento, l’espressione: la lingua araba ha attinto da queste pozioni e ha ottenuto il potente distillato della lacrima: l’ha chiamata ‘abrat. Sapete che in un certo senso dalle lacrime ha inizio la letteratura araba? “Fermatevi e piangiamo al ricordo dell’amata e di un accampamento” (Qifā nabki min dhikra ḥabīban wa manzili) di Imru ‘l-Qays, “è il verso con cui, secondo la tradizione, nel VI secolo d.C. ebbe inizio la letteratura che, nata in Arabia, è stata l’espressione di una civiltà diffusa dalle regioni iraniche fino all’Atlantico” (dalla quarta di copertina di Storia della Letteratura Araba Classica, Daniela Amaldi). Imru ‘l-Qays, si legge nel capitolo 1, “figlio di Ḥujr, ultimo re dei Kinda, è il poeta preislamico più famoso a cui la tradizione attribuisce l’invenzione della qaṣīda”.

Si sfiorano poi i versi del poeta arabo andaluso Ibn Zaydūn (1003-1070) che sotto la dinastia degli Omayyadi amò proprio la figlia del califfo Muhammad III di Cordoba, la poetessa Wallada: “potrà mai un esiliato tornare ad az-Zahrā, dopo aver esaurito tutte le lacrime per la lontananza?”. E seguendo le lacrime lasciate come un sentiero da alcuni poeti arabi si arriva a Ibn Ḥamdīs (ca. 1055-1133) “il più famoso poeta siciliano” che “viene considerato siciliano per nascita e per aver cantato la nostalgia per la natura della terra dei padri, ma anche per le città della sua terra a cui era più legato, Siracusa e Noto, su cui, memore della siccità che le attanaglia, invoca la pioggia, per la terra dove passai la giovinezza e che sia sempre bagnata dalle lacrime della sofferenza” (capitolo 6).

Anche nel Corano (ne riporto la traduzione di Gabriel Mandel per UTET) troviamo le lacrime e il pianto, come qualcosa che avvicina alla verità e all’umiltà d’animo. Nella Sūratu al-Mā’ida, la Sura della Tavola, rivelata a ‘Arafa durante il “pellegrinaggio dell’addio” il 26 febbraio 632 ecco il Versetto 83 dove gli occhi di chi crede tafīḍu min ad-dam’i (traboccano di lacrime, che in arabo si chiamano anche così, dam’): “E quando ascoltano ciò che è sceso sul Messaggero vedi i loro occhi riempirsi di lacrime, perché vi riconoscono la verità”. E nella Sūratu al-Isrā’, Il trasporto; Il viaggio notturno, rivelata quasi interamente a La Mecca, eccetto alcuni Versetti, al Versetto 109 i fedeli yabkūna (piangono) perché essendo coloro che pregano “Cadono sul loro mento piangendo e ciò aumenta la loro umiltà” (a indicare la prosternazione nella preghiera).

Le lacrime, che il poeta iracheno contemporaneo Ghareeb Iskander ha plasmato in un suo verso come il “santo patrono dell’isolamento”, sono impresse in me dal fotogramma così vivo che ce ne ha donato Elias Khoury nel suo Bab al-Shams (La Porta del Sole), tradotto così bene da Elisabetta Bartuli per Einaudi: “Le lacrime sono la nostra medicina, diceva mia madre”. Ed è quasi impossibile dimenticare la mamma  di cui ci narra che non sente i primi vagiti del neonato perché viene alla luce quando è l’ora della preghiera e le voci dei mueẓẓin ne sovrastano il pianto. In Storia d’Amore e di Tenebra lo scrittore israeliano Amos Oz, a cui di recente è stato assegnato il premio Kafka, dice di aver imparato dal premio Nobel Agnon (il premio fu assegnato quell’anno anche alla scrittrice ebraica Nelly Sachs, con cui Agnon lo condivise) “una cosa, che mia nonna esprimeva in modo più pregnante di quanto non stia scritto in Agnon: Se non ti restano più lacrime per piangere, non piangere. Ridi.”

Una frase (e indovinate? In arabo frase si dice ‘ibāra! La stessa radice di lacrima…) è attraversata dalle lacrime che nel passaggio creano una via, un attraversamento a loro volta, per chi le versa: così risuona al mio orecchio il canto di questa radice. Se ‘abrat, la lacrima, dà vita ad abīr, l’aroma, la fragranza, “il profumo che asciuga le piaghe” come nel verso che ci ha donato la poetessa libanese Joumana Haddad, c’è qualcuno che ha portato le sue lacrime fin sul terreno, assorbendone l’umido conforto. Parlo di Abu Qais, uno dei protagonisti cui Ghassan Kanafani ha dato voce nel suo Rijāl fi ash-Shams (Uomini sotto il sole).

Nella splendida traduzione di Isabella Camera d’Afflitto, Abu Qais ricorda quando si presentò dall’uomo che si occupava di far arrivare illegalmente le persone in Kuwait: “Poi le sentì, calde, che gli riempivano gli angoli degli occhi e stavano per cadere … Voleva dire qualcosa, ma non ci riuscì. Si sentì tutta la testa piena di lacrime, che sgorgavano dall’interno, così girò su se stesso e si precipitò in strada. E là le persone cominciarono ad annebbiarsi dietro il velo di quel pianto, l’orizzonte del giorno e il cielo si congiunsero, e tutto, attorno, fu uno spoglio bagliore bianco senza fine.” Finché il pianto e la fragranza divennero una cosa sola: “Tornò sui suoi passi e si gettò col petto contro la terra umida, che subito cominciò di nuovo a pulsare sotto di lui … e il profumo di quella terra gli saliva al naso e si riversava nelle sue arterie come un diluvio”.

Claudia Avolio