Arafat e la pace: impossibile con lui, impossibile senza di lui

Di Matthew Kalman. Haaretz (9/11/2014). Traduzione e sintesi di Giusy Regina.

Yasser Arafat, leader leggendario dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e primo presidente eletto dell’Autorità palestinese, morì in circostanze misteriose l’11 novembre 2004 in un ospedale militare fuori Parigi, lasciandosi dietro di sé un’eredità composita tra violenza, terrorismo, conquiste politiche e una leggenda che ha catturato l’immaginazione di sostenitori e critici un po’ in tutto il mondo.

Quelli che lo hanno visto da vicino hanno colto sicuramente qualche indizio di quella personalità complessa che nascondeva sotto la kefiah e che manipolava con cura dandole la forma della mappa della Palestina, così come manipolava tutto quello che lo circondava.

Era sicuramente un uomo di carisma intenso, grande fascino, temperamento violento e ambizioni imperscrutabili. Ha creato il movimento nazionale palestinese moderno quasi da solo e lo ha usato come veicolo non solo per le aspirazioni nazionali del popolo palestinese e il desiderio di indipendenza e libertà, ma anche per molto altro.

L’OLP nelle mani di Arafat è stato uno strumento politico potente che ha messo in primo piano i palestinesi e la loro “questione” davanti agli occhi dell’opinione pubblica mondiale e nelle sale del potere. Certo a volte è stata anche una macchina omicida, sullo stile di una mafia, che ha ucciso molto e accumulato ricchezze. La sua lotta contro Israele inoltre ha attraversato molte fasi spesso contraddittorie e controverse.

Ma la violenza di Arafat non è mai stata diretta esclusivamente ad Israele. Venne espulso dalla Giordania durante il “settembre nero” del 1970 dopo un tentativo di colpo di stato finalizzato a rovesciare il re Hussein; fu cacciato dal Libano nel 1983 dopo che la creazione di Fatah aveva innescato l’invasione israeliana del Libano. Ha fatto la pace con Israele nel 1993 con gli Accordi di Oslo solo per arrivare il primo giorno a Gaza accompagnato da un famoso terrorista ricercato. Ha abbandonato il tavolo dei negoziati di pace a Camp David nel 2000 e fomentato la Seconda Intifada settimane dopo che era stato minacciato di mandare all’aria gli Accordi di Oslo.

Il suo modo di fare, spesso incline al doppio-gioco, ha lasciato una situazione disastrosa in Palestina dopo la sua morte. Arafat ha giocato spesso con il fuoco, con Hamas ad esempio, che denunciò in pubblico ma a cui permise di operare laddove si trattasse di attaccare Israele. Lo stesso Abbas, da sempre secondo di Arafat, ha sofferto personalmente dei suoi giochetti tanto che quando il leader indiscusso è morto, i due non si vedevano né parlavano da mesi.

L’eredità lasciata da Arafat in termini di ipocrisia, lotte intestine e corruzione è stata talmente forte che ha influenzato pesantemente il comportamento dei leader palestinesi che gli si sono succeduti fino ad oggi. Lo stesso Abbas cade regolarmente nell’utilizzo di un linguaggio ambiguo e sulla stessa scia Jibril Rajoub, probabile suo successore, avrebbe affermato prima che Israele non ha nulla da temere da uno stato palestinese, per poi mandare un messaggio in arabo in cui assicurava la distruzione di Israele se la Palestina fosse entrata in possesso di un’arma nucleare.

Ciononostante, nessuno degli attuali leader palestinesi potranno mai eguagliare la posizione a dir poco unica che Arafat ha occupato e occupa nella storia palestinese. Solo lui avrebbe potuto convincere il suo popolo a fare quelle concessioni che servivano per giungere ad un accordo, ma non ha voluto, preferendo alla pace il caos permanente. Ed oggi non c’è nessuno della sua levatura e coraggio in grado di prendere quel tipo di decisioni che metterebbero fine al conflitto.

A dieci anni dalla sua morte dunque l’eredità controversa di Arafat continua a dominare l’arena del processo di pace in Medio Oriente: è stato sì impossibile raggiungere un accordo di pace con Arafat, ma è altrettanto impossibile raggiungerlo oggi senza di lui.

Matthew Kalman è giornalista e co-autore di The Murder of Yasser Arafat, pubblicato nel 2013.

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