Samir Saliha. Al-Arabi al-Jadeed (05/04/2017). Traduzione e sintesi di Emanuele Uboldi.
Il ministero degli Esteri turco ha definito l’aver issato la bandiera del Kurdistan iracheno affianco a quella irachena sui palazzi governativi di Kirkuk “un atteggiamento di sfida” contrario alla Costituzione che nuocerà agli interessi e al dialogo tra le componenti della società irachena. Tutto qui ciò che può dire e fare la Turchia? Sarà a causa dei suoi grossi problemi con le forze locali e regionali in Iraq?
La Turchia è stata tra i primi a criticare il modo in cui la Costituzione irachena del 2005 (sostenuta dagli USA) rimandasse il futuro di Kirkuk: l’art. 140 prevede un percorso a tre tappe con un referendum finale per sancire il passaggio della città alla regione curda. Nonostante ciò, è stata tra i primi a temporeggiare una volta che, a dicembre 2007, l’Unione Patriottica del Kurdistan, il Partito Democratico del Kurdistan e il partito islamico si erano accordati sulle modalità per attivare l’art. 140. L’accordo di oggi non è altro che la continuazione di quello di 10 anni fa, nei quali la Turchia dovrebbe aver avuto modo di analizzare la questione. Se puntava sul cambiamento degli equilibri etnico e politico, ha sbagliato a fare i conti e sarà la prima a pagarne le conseguenze.
Ha sbagliato a pensare che l’art. 140 avrebbe condotto al ritorno della popolazione autoctona e all’allontanamento degli immigrati. Inoltre, è stata l’unica a battersi per cambiare l’articolo, in quanto favoriva i curdi a danno dei turcomanni, con il tacito assenso di Baghdad, che allora aveva bisogno dell’appoggio turco. Puntava sul fatto che i curdi iracheni rimanessero nel bozzolo iracheno, lontano dai progetti federali e dal divampare del nazionalismo regionale curdo.
Oggi la Turchia si affretta a sostenere la posizione del governo e del parlamento iracheno (contrari alla bandiera issata), giocando la carta dell’unione nazionale. Ma non sarà più in grado di fare ciò che aveva detto l’ex primo ministro Davutoğlu, e cioè riportare allo splendore la nazione per proteggere i turcomanni di Kirkuk e impedire il cambiamento dell’identità: come potrà farlo ora?
La difficile posizione turca nel nord iracheno ha a che vedere non solo con la questione di Daesh (ISIS) a Mosul, ma anche con la modificata situazione della sicurezza, che diminuisce l’influenza turca. Sembra inoltre che i rapporti tra Turchia e Kurdistan regrediranno nei prossimi anni, anche date le dichiarazioni del presidente del Kurdistan iracheno Mas’ud Barzani. Questi infatti si dice a favore della bandiera sugli edifici governativi e dichiara di voler andare fino in fondo e assicurare la regione ai curdi. Il problema della Turchia consiste nell’intrattenere relazioni ambigue e dal carattere altalenante con i poteri politici iracheni per perseguire politiche e interessi in contrasto con quelli degli USA.
L’esercito iracheno ha combattuto per cacciare Daesh, ma sa bene che i curdi non lasceranno i territori se non in cambio di Kirkuk. Va da sé che aver issato la bandiera curda prelude ad ammainare quella irachena, prima o poi. Si può leggere, tra le righe delle argomentazioni di Barzani, un messaggio per l’alleato turco: grazie per il supporto datoci fino ad oggi e arrivederci. I curdi del nord Iraq vorrebbero una regione irachena autonoma che comprenda Kirkuk, così da includere uno dei giacimenti di petrolio più vasti del Paese. Quale sarà la risposta di Ankara e Baghdad? Iran e USA lo permetteranno?
Erbil ha annunciato che il percorso ex art. 140 della costituzione sarà completato entro fine anno. La regione versa in una profonda crisi e risulta fortemente frammentata a livello politico, ma riesce ad essere concorde sulla necessità di uno stato curdo autonomo, per quanto conscia delle difficoltà che i dirigenti politici dovranno affrontare. Contro chi si rivolgerà la Turchia?
Sembra chiaro che la Turchia abbia ritirato il proprio supporto ai curdi nella lotta contro Daesh. La scelta si riduce quindi ai turcomanni, salvo sorprese dell’ultimo minuto da parte turco-iraniana sulla Siria qualora questi due si sentissero minacciati dai progetti americani e russi.
Le risposte russa e americana potrebbero essere inviti o pressioni per attuare l’art.140, mentre la posizione del mondo arabo non è ancora nota: dal summit del Mar Morto, incentrato sulle politiche iraniane e turche, sarà emanata una condanna oppure no?
Samir Saliha è ricercatore turco e professore di diritto pubblico internazionale e relazioni internazionali.
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