Di Ahmad Qabaha. Your Middle East (05/10/2015). Traduzione e sintesi di Claudia Negrini.
Nel suo romanzo di evasione “Al-Safina” (tradotto in inglese con il titolo “The Ship”), scritto alcuni anni dopo la sconfitta araba del 1967, l’ormai scomparso poeta, romanziere e critico palestino-iracheno Jabra Ibrahim Jabra colloca dei rifugiati arabi a bordo della nave immaginaria Hercules, diretta verso l’Europa. Il percorso della nave, che si allontana dal mondo arabo, rappresenta la critica dei passeggeri al regime e rispecchia anche la trasformazione del mondo arabo post ’67, da luogo sicuro a instabile.
Ci sono molte risonanze tematiche tra “Al-Safina” e la storia collettiva dei rifugiati in Medio Oriente di oggi. La trasformazione del mondo arabo in un luogo ostile e minaccioso dopo la Primavera Araba ha reso la fuga degli arabi verso l’Europa, come quella dei personaggi di Jabra, una ricerca di rifugio da regimi inarrestabili che decidono di ridurre in cenere i loro Paesi come risposta alla ribellione del loro popoli contro l’ingiustizia.
Senza dubbio il mondo intero si è commosso di fronte alla foto straziante di Aylan, il rifugiato siriano gettato dal mare sulla costa, senza vita. Riguardando la foto di Aylan e tenendo presente il romanzo di Jabra, questa rivela le politiche che Aylan rappresenta ma non dice. La sua morte, con le scarpe rivolte verso di noi, raffigura il suo rifiuto di rimanere nel mondo degli uomini. Mostra la sua delusione verso di noi, la delicata specie vivente dell’universo. Così come suo fratello Handalah, che all’età di 10 anni ha voltato le spalle al mondo, in segno di disprezzo verso la cattiva gestione della crisi dei rifugiati, Aylan volta le spalle allo sfacelo del mondo, condannando la sua indifferenza nel trovare una soluzione alla crisi del mondo arabo ancora in corso. La morte di Aylan esprime il suo pessimismo verso la possibilità di trovare un’esistenza alternativa nel 21° secolo, dove la sua generazione è nata per poi essere lacerata dalla guerra e dalla sofferenza. Aylan rifiuta di stabilire un nuovo contatto con il mondo dei vivi quando arriva sulla spiaggia.
La sua missione non era solo quella di attraversare il mare – effimero e transitorio – verso un mondo sconosciuto, ma anche quella di avvertire le persone che stanno lì della tortura senza fine che sta vivendo il suo popolo.
Aylan, come Wadi’a, uno dei rifugiati palestinesi di “Al-Safina”, pensa che anche il mare sia “incurante, indifferente, un mostro, un inferno”. Perciò Aylan con la sua morte rappresenta i pericoli del viaggio in mare dei rifugiati arabi e ricorda che mentre qualcuno riesce raggiungere la terra ferma, altri sono destinati a morire. In questo senso, Jabra non introduce soltanto l’idea di mare come ponte di salvezza ma avverte anche della sua pericolosità: il mare per Jabra può causare danni fisici e psicologici.
Aylan supera addirittura Jabra con il suo atto, come un delegato di un filosofo esistenzialista che rappresenta l’angoscia dei rifugiati arabi. Mette in evidenza l’idea esistenziale dell’assenza di significato del mondo intero e esprime la sua perdita di fiducia nell’umanità dopo l’esposizione al trauma della guerra. Molti bambini arabi, così come molti altri bambini nel mondo, sono stati sradicati dai loro luoghi, dalle loro connessioni e orientamenti di vita. Agendo al posto loro, Aylan nega la possibilità di sentirsi “a casa” in qualsiasi altro posto, dopo aver perso la casa della loro infanzia, dopo l’“esilio” dall’innocenza. La sua morte ribadisce il suo sradicamento fisico e psicologico dal corso della vita del mondo.
Il viaggio in mare implica la trasformazione di Aylan dalla realtà all’astrazione, da un luogo a un non-luogo, da ciò che appare a ciò che scompare; da casa all’esilio, cioè, dalla vita alla morte. “Essere in esilio dalla tua stessa terra è una maledizione, la più dolorosa maledizione di tutte”, sostiene Wadi’a, uno dei personaggi di Jabra. “Chiedi a un palestinese… ti dirà che la sua vita, dopo essere stato sfrattato dalla sua terra, non è stata vita. Questo mare blu brilla, incurante, indifferente”.
Ahmad Qabaha è dottorando in Letteratura Post-Coloniale Comparata all’Università di Lancaster.
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