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Ḥ-L-M, un sogno contro

Naji Al-Ali
Naji Al-Ali
Naji Al-Ali

Il reporter polacco Ryszard Kapuściński mi stava accompagnando a casa. Mentre gli sorreggo il braccio, mi giro verso di lui e sento lo sforzo del pensiero che sto per esprimergli (in inglese poi!): “Perché mai succede che, quando siamo tristi – o perfino disperati – il solo atto di ascoltare diventa così doloroso?”. Non so cos’ha risposto, lui, perché mi sono svegliata. Forse un giorno, in un altro sogno, mi offrirà la sua visione della cosa. ḥulm, il sogno in arabo, la visione. Se fossi musulmana potrei affidarmi all’interpretazione islamica dei sogni. Basata sui precetti islamici della Sunna, quest’interpretazione classifica i sogni in tre categorie: ru’yaa sono i sogni che provengono da Dio, le buone visioni. ḥulum sono dei sogni malvagi, che provengono da Shaitan (Satana). Ciò che crea la mente, poi, i sogni che si ascrivono semplicemente all’individuo in sé, non sono né buoni né cattivi e si definiscono nafsi (da nafs ‘se stesso’).

Ho scoperto che il web è pieno di siti che offrono responsi in base a questa interpretazione dei sogni, uno è questo: http://www.myislamicdream.com/. Non posso sapere se (e quanto) questi siti siano fedelmente aderenti ai precetti, ma resta lo stesso un fenomeno interessante. Inserendo, per esempio, la parola ‘pen’ (penna) si scopre che “Se si vede una penna e il Corano, essa è simbolo di conoscenza e saggezza; se invece la si vede con una macchia d’inchiostro, indica un figlio”.

“Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso” è un verso di De André che mi è sempre rimasto impresso e caro, è tra ciò che rende più viva l’idea che ho di ḥulm. Se dovessi far capire questa radice senza usare le parole, riempirei una stanza con i disegni di Naji al-Ali, colui che “col suo sangue ha disegnato per la Palestina”. Alessandra Antonelli ci ha fatto un grosso regalo quando ha scritto che “Il sogno di [Naji] Ali era di studiare arte in Italia”. Oggi studiamo la sua arte e siamo catapultati nel suo sogno. Spesso è la notte a pervadere le sue visioni, il cielo è nero e uno spicchio di luna assiste dall’alto. “Nessuna buonanotte, nessun buongiorno, America. Noi combatteremo.” ha scritto in una vignetta, rendendo chi si vedeva sottratti i propri sogni un vero sogno contro. Anā ufakkiru idhān anā mawjūd si legge su una lapide, una versione araba di cogito ergo sum, penso dunque sono, che per me diventa sogno dunque resisto.

Ne “La Tigre e la Neve” di Roberto Benigni, ambientato in larga parte a Baghdad, Tom Waits canta che “non si potrebbe mai trattenere la primavera [dallo sbocciare]”, e tra le ragioni c’è che “l’inverno fa lo stesso sogno tutto il tempo”: la sogna, e così lei arriva. La prima volta che mi sono fermata ad ascoltare i pensieri di Roberto Saviano, c’era ad intervistarlo Enzo Biagi. “Un sogno ce l’hanno tutti. Il suo?” è stata la domanda. Questa la sua risposta: “Io credo che in qualche modo i sogni più privati possano coincidere con quelli più nobili, i sogni sociali, quando iniziano a somigliarsi.” Dopo poco, soggiunge: “Mi piace usare una frase di un vecchio barbuto che scrisse questa cosa in un vecchio libro: ‘Tutto ciò che io desidero non è possibile identificarlo. E quindi preferisco dire che io voglio il sogno di una cosa‘…”. Lui ricorda spesso quel verso di Danilo Dolci che di ḥulm è davvero imbevuto e che dice “sognando gli altri come ora non sono: / ciascuno cresce solo se sognato”.

Ditemi se anche Taha Hussein, l’amato scrittore (e non solo) egiziano nato a Minya, non aveva il sogno di una cosa: “Sì, nell’oscurità e nella tranquillità della notte, mi concedo l’indulgenza di un bellissimo sogno. Vedo un Egitto che ha compiuto tutto ciò ch’io abbia mai chiesto, dedicando ora le sue cure più accorate e  tutta la sua attenzione all’istruzione. (…) Vedo un Egitto da cui le nebbie dell’ignoranza si sono dissipate, immerse nella luce della conoscenza e dell’apprendimento. Vedo un Egitto in cui l’istruzione abbraccia tutto il popolo, ricchi e poveri, forti e deboli, brillanti e offuscati, giovani e vecchi. Vedo un Egitto immerso nelle dolcezze dell’istruzione, un Egitto in cui la luce dell’istruzione illumina allo stesso modo tuguri e palazzi.” E Abdel Fattah Galal, che si è dedicato a spiegare proprio quel suo sogno, così lo ha allora descritto: “Taha Hussein ha espresso il suo sogno non nell’arido gergo della scienza pedagogica, ma nella lingua della poesia, una lingua compresa dal popolo ad ogni livello di istruzione”.

ḥulm è così caparbio che ha deciso di mettersi con le consonanti piantate nel terreno più arduo da sopportare. Sdraiata sulla terra come Abu Qais in Uomini sotto il sole di Kanafani, la radice si sente schiacciata dalla parola poco più sopra, iḥtilāl, l’occupazione militare. Mahmoud Darwish ha in qualche modo unito queste due sfere del pensiero, quando nel 1967 ha scritto che “Il soldato sogna di gigli bianchi, di un ramo d’ulivo, di un uccello che abbraccia l’alba in un albero di limoni”. E dalla stessa voce del soldato ci dice “Sogno di gigli bianchi, strade di canto, una casa di luce” (qui il testo in inglese). Viene istintivo passare il dorso dell’indice tra l’una e l’altra radice, quasi a permettere a ḥulm di respirare senza più venir oppressa. Un solo indice teso sulla sua sequenza di consonanti, gesto che proteggerebbe forse soltanto una formica dalle gocce di pioggia. Eppure esistono alcune formiche che sono in grado di trasportare 50 volte il proprio peso. Non so se una qualunque forza d’occupazione militare possa dire lo stesso. Però ḥulm, a occhio e croce, direi di sì.

 Claudia Avolio