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Ṣ-W-T, dove arriva la voce

Bahgory, artista egiziano
Bahgory, artista egiziano
Bahgory, artista egiziano

Mai una radice mi ha parlato così ostinatamente della mia casa. Qui tutto è legato a una voce. Un tempo la sua voce era una cella. Sentirla, ogni volta, restringeva lo spazio. Non era emessa da corde, ma da sbarre vocali. Ti rinchiudevano nei timpani e non potevi più uscire. Un giorno una piena di dolore è scorsa e ha trascinato via tutto, lasciando un limo di comprensione che credevo non sarebbe mai arrivata.

La sua voce, ṣawt, non ha smesso di venire fuori. Ma ha smesso di farmi male. Mio padre a 16 anni mi ha detto: “Se lei può sopportare di sentirsi così, tu puoi sopportare di sentirla lamentarsi”. Le nostre notti in bianco sono spesso scandite dalla sua voce insonne, raccontate tra gli scherzi del giorno dopo. Con mille voci da teatro sperimentale, alla Grotowski, alla Eugenio Barba. Qui tutto è legato a una voce. “Io so, appena mi corico, appena poso la testa sul cuscino, io so che lei sta per chiamarmi” – solo mio padre che lo vive sa che vuol dire.

“Nessun uomo può dire ‘Io sono’ se non ha sofferto questa oralità, se non è stato iniziato a questa oralità, se non è stato trafitto dalla voce: della madre, del clan, del territorio”: Majid El Houssi, poeta tunisino che ha vissuto per molti e molti anni in Italia, identificava nella voce ciò che più di tutto porta l’essere umano a stare nel mondo. “Noi veniamo al mondo con la voce, con l’urlo, col grido – e sentiamo altre grida, e sentiamo altri urli, e poi sentiamo storie, le favole, racconti, sentiamo canti”, gliel’ho sentito dire, stregata, in “Suonare la voce”, lavoro dedicato a Demetrio Stratos, che della voce ha voluto sondare ogni possibilità. E la sua ci manca davvero.

Per conferire alla voce una dimensione sociale, più ampia del mio corso individuale, ho dovuto aspettare la lingua araba. Togliere un peso alla voce e aggiungervi una responsabilità diversa, è ciò che ha fatto per me ṣawt, parola che indica sia la voce ed il suono, sia il voto. Il verbo ṣawwata (li-) accomuna l’atto di urlare all’azione di votare. Come scriveva Khalil Gibran ne Il Profeta, “Una voce non può trascinare la lingua e le labbra che le diedero le ali. Da sola, deve cercare l’etere” (trad. Ariodante Marianni). È tutto da costruire, a partire dalla voce stessa. Esprimerla è già prendere una posizione, scegliere da chi essere governati.

Parlare non può essere poco, se non a tutti è data una tale condizione. Yunus Emre, poeta sufi dell’Anatolia, è riuscito a dirlo con un solo verso: “È necessario che chi non ha orecchie ascolti chi non ha lingua, e che l’anima li comprenda entrambi” (trad. Roberta Denaro). Quanta eloquenza in una lingua che rende un elettore (muṣawwit) al pari di ciò che è sonoro, rumoroso. La voce diventa espressione di una volontà, di un riscatto fatto di vibrazioni ed onde a lungo raggio. Una voce, come un movimento, non si può ignorare. Non è necessario neanche esserne raggiunti, il suo esistere si dà in ogni caso.

Chiedetelo a Czeslaw Milosz, l’amato poeta polacco, che ha compreso il valore di una voce terribile: “Anche se si trovasse a migliaia di chilometri di distanza, un essere umano vivente non può essere facilmente cancellato dalla memoria. Se è sottoposto alla tortura la sua voce giunge almeno a coloro che – cosa niente affatto comoda – hanno una viva fantasia” (trad. Giorgio Origlia).

Lo stesso valore di ṣawt, voce e voto, l’ho ritrovato nelle parole tenaci di una ragazza siriana: Nour, giornalista, 24 anni. Si guarda intorno, e intorno sono le macerie a restituire lo sguardo. Afferma sicura: “La Siria è distrutta adesso, è vero, è così. Ma ora abbiamo qualcosa che vale la pena: possiamo parlare, esprimere le nostre opinioni su ogni cosa”. Unendo davvero la voce al proprio ruolo nella società, così come fa questa radice araba, aggiunge: “Non ne potevamo più di non poter dire come ci sentiamo o quali sono le nostre opinioni. E di non essere in grado di partecipare alla nazione”. Potete incontrarla nel documentario di Matthew VanDyke dal titolo “Not Anymore: A Story of Revolution” – la sua voce ha molto altro da dirvi.

Qualche giorno fa ho ripreso in mano un libro di Enzo Biagi di mia madre. Verso la fine delle sue interviste così ben narrate, vi ho trovato scritto: “Ho fatta molta fatica per imparare ad ascoltare; prevedo che verrà un momento in cui sarà difficile farmi sentire”. Lui rientra tra le voci da cui sto imparando ancora. A dire quello che penso, ad ascoltare la mia voce anche quando sono l’unica a farlo. La lingua araba suggerisce che, così, sto già eleggendo il mio governo interiore. Le credo, e chiedo alla voce di esprimere bene il suo voto. Una frase sincera, forse, resterà sempre il candidato migliore.

Claudia Avolio