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ZH-L-L, al riparo dell’ombra

basquiat
Jean-Michel Basquiat | Defacement (The Death of Michael Stewart)

zhill. Sembra già di provare sollievo al solo sentirla pronunciare: l’ombra. In arabo zhill, oltre alla sfumatura, dà proprio un senso di riparo, col verbo zhallala che è ombreggiare come pure riparare, proteggere. L’ombra, ho sentito dire qualche giorno fa, è la prima rappresentazione che l’essere umano ha visto di sé stesso. E ho pensato subito che zhill è quella figura nera, riconoscibile forse solo dai tratti della capigliatura, che Jean-Michel Basquiat dipinse dopo aver saputo che un suo amico writer era stato picchiato nella notte e ucciso dalla polizia. Quell’ombra nera dipinta, zhill, in balia del sopruso, deve farsi riparo di sé stessa, quando non trova più nella notte qualcosa che riesca a proteggerla, accogliendola nel suo corteo di ombre. Una quartina del poeta siriano Abu-l’Ala al-Ma’arri (973 – 1058) sembra descrivere la scena da una prospettiva lontana quasi mille anni: “La mistica tenda della Vita, sorretta dal Destino / La sua ombra più scura ora si getta su di me; / Si alza – ed ecco, faccio la mia parte / Cade – e chissà cosa e dove sarò?”.

 

Questa radice araba ci porta a sfiorare poi khayal al-zhill, le ombre dell’immaginazione del Cairo medievale, con Ibn Daniyal, oculista iracheno, che giunto in Egitto ne divenne un vero maestro. Come ha scritto John Feeney qui – un fotografo neozelandese e vero viaggiatore che ha vissuto in Egitto per 40 anni – si crede che “il teatro delle ombre sia nato con la fondazione stessa del Cairo nel X secolo”, e che in seguito “ebbe il suo picco nel XIII e XIV secolo con esibizioni lungo tutto il Delta del Nilo”. Ogni maestro delle ombre che si rispettasse, ci dice Feeney, conosceva almeno 28 pièce teatrali: una per ogni notte di Ramadan, quando i cairoti si riversavano nelle strade e spezzavano il digiuno durato per tutto il giorno. Storie della tradizione, racconti arguti e satire dei più recenti sviluppi politici erano tutti parte del teatro delle ombre del Cairo, con alcune storie pensate a puntate per assicurarsi che il pubblico tornasse anche la notte dopo a sentire il seguito. La luce proiettata sul bianco schermo su cui si dava vita alle ombre era anche “metafora della forza illuminante e creatrice di Dio”. Per noi ne ha scritto in italiano Francesca Maria Corrao col suo Il riso, il comico e la festa al Cairo nel XIII secolo, di cui potete leggere la recensione di Anna Felicia Nardandrea qui. Feeney riporta anche le parole di un altro maestro del teatro delle ombre, considerato uno degli ultimi capisaldi di questa cultura al Cairo, Ahmed El Khoumy, quando disse: “Di giorno portavo in scena le marionette. Ma quando poi faceva buio, era tempo per le ombre…”

 

zhill an-nur è L’Ombra della Luce cantata in arabo da Franco Battiato il 4 dicembre 1992 a Baghdad, nel Teatro nazionale iracheno. L’esibizione è pervasa da un’atmosfera che sprigiona quel senso di protezione e riparo che questa radice araba porta con sé: “E non abbandonarmi mai / Non mi abbandonare mai… / Perché le gioie del più profondo affetto / o dei più lievi aneliti del cuore / sono solo l’ombra della luce”.

Claudia Avolio