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Yemen: ‘chi altri offende, sé non sicura’

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Di Lama Fakih. IRIN News. (24/06/2015). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo.

La dimostrazione più tragicomica del fallimento delle trattative per un accordo di pace in Yemen, a Ginevra, tra i rappresentanti del governo, dei capi tribali e dei ribelli sciiti Houthi, è stato il lancio di una scarpa contro un esponente di spicco di questi ultimi, durante una conferenza stampa. Un gesto che la dice lunga sulla complessità del conflitto in Yemen, ulteriormente complicato dai bombardamenti della coalizione sunnita, a guida saudita, iniziati il 26 marzo. Ennesima riprova, se mai ce ne fosse bisogno, del fatto che per porre fine a una guerra l’unica opzione da scartare è, appunto, un intervento armato.

A nulla sono valsi gli appelli di Human Rights Watch, secondo cui “lo Yemen è stato definitivamente messo in ginocchio dalla guerra”. Né l’allarme sulla crisi alimentare e idrica, lanciato dal ministero dell’Ambiente yemenita e dalla FAO. I raid della coalizione sunnita continuano a colpire obiettivi civili, mentre la comunità internazionale continua a preferire il ruolo di spettatrice.

La guerra in Yemen, inizialmente tra il governo di Sana’a e gli Houthi, è solo uno dei risvolti di un conflitto che attualmente interessa, più o meno direttamente, un’area che va dall’Europa al Medio Oriente. Scontro che affonda le proprie radici nella dialettica tra oppressori e oppressi, ma che si ammanta di pretestuose prese di posizione ideologiche o religiose. All’integralismo religioso armato dietro cui si celano i cartelli del jihad in Medio Oriente e in Africa, fanno eco, nell’Occidente “evoluto” movimenti e formazioni che esprimono mentalità xenofobe (in generale, si potrebbero definire “eterofobe”, ovvero di paura e quindi rifiuto del “diverso da sé”), neofasciste e “involute”. Questo il risultato di una globalizzazione fondata sulla logica del profitto, della sopraffazione e dello sfruttamento, di cui la Grecia è vittima tanto quanto l’Iraq, la Siria, la Libia o lo Yemen (mutatis mutandis). Alla base si trova sempre una presa di posizione per il diktat anziché per il dialogo e l’analisi obiettiva, per cui il debito “odioso” è solo una versione falsamente edulcorata della violenza, più esplicita, dell’invasione armata.

In Yemen, milioni di civili sono a corto di cibo e, secondo le stime delle Nazioni Unite, la guerra ha provocato finora più di 1400 morti e 3400 civili. Per loro, come per i milioni di profughi che attraversano il Mediterraneo, la comunità internazionale non ha risposte, né proposte pertinenti, se non l’indifferenza. I bombardamenti della coalizione a guida saudita, intanto, continuano a colpire obiettivi civili (scuole, ospedali, la città vecchia di Sana’a), mentre l’UNICEF denuncia che milioni di bambini non vengono neanche più vaccinati, per scarsità di farmaci ma anche perché manca la corrente necessaria a far funzionare gli ospedali. I principali centri urbani sono ridotti a città fantasma e i civili che riescono a fuggire (molti non possono, a causa dell’inagibilità delle strade e della scarsezza di carburante), approdano in Gibuti, Somalia e Oman. Persino l’ingresso degli aiuti umanitari nel paese è estremamente difficile, essendo gli aeroporti fuori uso e il confine con l’Arabia Saudita, ovviamente, chiuso.

A minaccia globale, a rigor di logica, dovrebbe corrispondere una reazione altrettanto globale. Poiché la violenza, finora, non ha prodotto altro che l’avvicendarsi di oppressori, di diverso colore politico ma sempre signori della guerra, sarebbe forse il caso di iniziare a pensare a una smilitarizzazione generalizzata. Dei paesi, ma soprattutto delle coscienze. Chi altri offende, sé non sicura, scriveva Leonardo da Vinci.

Lama Fakih è Consulente Esperto di Amnesty International.

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