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W-F-A, morire sembra diverso

farid al-din attarMorire sembra diverso se gli occhi si posano su certe radici arabe che lo descrivono. Prendete il verbo tuwuffia, morire. Guardatelo bene: vi svelerà che la sua origine, wafaa, significa esser completo, perfetto. E poi waffaa vi racconterà dell’assolvere ogni impegno. Curioso, ho pensato, che poco più giù sia inevitabile scorgere waqqata, fissare un tempo. Waqt, certo, il tempo. Perfino nel dizionario la morte e il tempo si rincorrono, si confrontano senza tirarsi indietro. “Finisce tutto quello che si lascia finire… Se t’impegni a continuare, non finisce,” scriveva Boris Pasternak, sfidandoci a proseguire oltre. Farīd al-Dīn ʿAṭṭār, poeta e mistico persiano, sentiva a pieno questa dimensione di qualcosa che si compie, e che quindi ricomincia appena sembra terminata: “Devi morire cento volte ogni attimo: come potresti altrimenti attraversare questa valle?”. C’è un modo di chiamare il morire in arabo, faniya, che è legato al consumarsi, al perire. A me fa pensare ad A. A. Tarkovskij quando diceva che “Osservare il morire dei mestieri / è come sotterrare sé stessi”. Non avviene subito, tutto in una volta, ma accade lungo le coordinate, senza manifestarsi. “E chiunque percorre duecento jarde senza simpatia segue il suo funerale, avvolto nel sudario,” ammoniva Walt Whitman, a rendere il tenere la guardia alta attraverso una prospettiva meno chiusa in sé stessi una difesa dal consumarsi. Eppure questa radice araba così dura, che comprende per esempio fanā, l’estinzione, ha accanto a sé il più valoroso cavaliere che si batte con la morte: fann, l’arte. È proprio lì, appena sopra, e la sospinge perché non s’imponga. “L’arte non può essere moderna. L’arte appartiene all’eternità,” scrisse Egon Schiele nel 1912, mentre era in prigione a Neulengbach (Vienna), intitolando poi una sua opera È un delitto porre dei vincoli ad un artista, significa uccidere una vita nascente!

Come quella di Adel Khadri, il venditore di sigarette, ventisettenne, che qualche giorno fa si è immolato ed è morto, in Tunisia. Immolare è un verbo che la lingua araba sembra comprendere sino in fondo, nelle radici che si è trovata ad assegnargli. ḍaḥḥā bi-nafsi, immolarsi, vede la propria origine in ḍaḥā mostrarsi, apparire. Trasmette in modo così propulsivo l’idea che, immolandosi, d’un tratto non si è più invisibili al mondo. Se la II forma ḍaḥḥā è proprio sacrificare, immolare, la IV forma aḍḥā riesce a unire ciò che avviene apparendo nel proprio sacrificio, significa infatti rivelare. La realtà che si rivela proprio quando sta per sottrarsi al resto dell’umanità, nel gesto di scomparire nel fuoco. C’è un altro verbo, in arabo, che indica l’immolarsi: dhabaḥa. Il significato originale che porta la radice è massacrare. Come Antonin Artaud ha definito Vincent van Gogh Il suicidato della società, dhabaḥa sembra portare con sé questo valore: chi è spinto a sacrificarsi, immolandosi, è vittima di un massacro sociale, sta subendo, in realtà, un massacro. “La vita esige l’offerta di qualcos’altro: spirito, intelligenza, buona volontà. La natura è sempre pronta a colmare i vuoti causati dalla morte, ma non può fornire l’intelligenza, la volontà, l’immaginazione necessarie a vincere le forze della morte. La natura restaura e ripara, questo è tutto. È compito dell’uomo sradicare l’istinto omicida, nelle sue ramificazioni e manifestazioni infinite”: questo è l’invito di Henry Miller, nel suo Il colosso di Marussi.

Continuare è qualcosa che, attraverso il suono, sono riusciti a esprimere sia Pablo Neruda quando scriveva “Tra morire e non morire, mi decisi per la chitarra”, che i Madredeus nella loro Guitarra che dice con molta originalità “Voglio una bara con una forma bizzarra / A forma di cuore / A forma di chitarra”. Un senso d’apertura e proseguimento oltre la soglia della morte ce lo dona anche Tahar Ben Jelloun quando, in Giorno di Silenzio a Tangeri, ci racconta: “I nostri cimiteri sono più belli di quelli degli Europei. Sono aperti come campi di grano selvatico. Generalmente si seppelliscono i morti in una collina che guarda verso la città”. Mentre il consumarsi è reso da una delle Quartine del grande poeta Omar Khayyam: “58 Un uomo è portato nel mondo, un altro strappato alla terra, / ma a nessuno è concesso svelare l’arcano supremo: / E questo solo c’è dato sapere del Destino: / che la vita nostra è una coppa, e qualcuno la beve”. E se per Pier Paolo Pasolini “Morire non è nel non comunicare, ma nel non essere compresi”, Miguel de Unamuno prova a tenerci sempre all’erta, perché consumarsi non sia legge insindacabile: “L’uomo è perituro. Può essere, ma periamo resistendo e, se il nulla ci è riservato, non facciamo che sia giustizia”.

 Claudia Avolio