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Verrà la guerra

Brandenburger Tor
La posizione delle diplomazie statunitense e britannica rischia di condurre la comunità internazionale verso un nuovo conflitto.

Abd al-Bari Atwan. Al-Quds al-Arabi (25/04/2013). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo.

Chuck Hagel, ministro della difesa Usa, è in questi giorni in visita ufficiale nelle capitali del Golfo per vendere aerei e missili moderni. Un modo per proteggersi, secondo lui, da un’eventuale minaccia di attacco dell’Iran. Ieri nel corso di una conferenza stampa ha dichiarato che l’intelligence di Washington ha notizie certe e fondate sul fatto che il regime siriano ha utilizzato armi chimiche e gas nervini come il sarin durante le operazioni militari contro i ribelli. Poco dopo il ministero degli esteri britannico gli ha dato man forte.

Non si intende criticare la posizione di questi due paesi, ma ricordare che entrambi sono stati due pilastri nelle ultime tre guerre lanciate da potenze occidentali e sostenute dalla Nato: Afghanistan, Iraq e Libia. Il presidente Usa Barack Obama ha detto più volte che l’uso da parte del regime siriano di armi chimiche costituisce una “linea rossa”, al cui superamento Washington risponderà duramente. Tuttavia, ha precisato un funzionario Usa, l’amministrazione Obama anche in una tale eventualità non muoverà un passo senza prima aver  consultato i suoi alleati.  Due posizioni contraddittorie dunque che potrebbero servire per preparare l’opinione pubblica alla possibilità di una nuova guerra. In altri termini rischia di ripetersi quanto accaduto sulle cosiddette armi di distruzione di massa del regime iracheno di Saddam Hussein: prima è uscita la notizia, poi i media arabi e internazionali hanno annunciato lo stato di emergenza organizzando dibattiti con gli esperti veri o presunti di cui pullula il web. Infine, soprattutto su internet, conferme a valanga dell’uso di armi chimiche e conseguenti appelli all’intervento tempestivo per salvare il salvabile, anche se con la forza. Che ci sia un rimedio, sia pure peggiore del male.

Negli ultimi giorni alla Casa Bianca sono andati molti capi di stato arabi, primo fra tutti l’emiro di Abu Dhabi Mohamed Bin Zayed, poi il ministro degli esteri saudita Saud al-Faysal, ieri Shaykh Hamad Bin Khalifa, emiro del Qatar, mentre oggi è stato il turno del re giordano Abdallah II. Non è da escludere che si tratti di una sorta di “consiglio di guerra” per spartire competenze e campi di interesse, dal campo di battaglia all’alta finanza.

E’ inaccettabile che il conflitto in Siria duri più a lungo, ma di certo non solo perché la vacanza di potere preoccupa gli alleati di Washington e rafforza i gruppi del jihad islamico, o perché indebolisce l’opposizione armata oppure perché alimenta i timori israeliani sulla possibile infiltrazione di armi chimiche da parte di gruppi armati. Più che alla caduta o meno di un regime dovrebbero preoccupare, oltre al dolore della popolazione civile, il rischio che la Siria e l’intera regione sprofondi nel vortice dei conflitti confessionali e settari e che questi sfocino in una guerra civile di cui non si potrà facilmente prevedere la fine.

Le dichiarazioni del ministro dell’informazione siriano da Mosca (secondo cui il regime siriano non avrebbe mai usato armi chimiche) suonano un po’ come un tentativo maldestro e tardivo di dissuadere Londra e Washington dal diffondere notizie al di là del ragionevole dubbio allo scopo di giustificare un’eventuale intervento militare in Siria. Al presidente siriano Bashar al-Assad la comunità internazionale chiede ciò che si era chiesto a Saddam Hussein o più di recente a Muammar Gheddafi: consegnare le armi e andarsene in esilio, o al limite sottoporsi a condanne a morte, con o senza processo. E’ improbabile che  Assad esaudisca questa richiesta. Quindi è il caso di prepararsi a una nuova guerra, forse uguale alle altre tre o forse diversa quanto a cause ed effetti.