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Un secolo di impegno e riflessione: intervista a Bernard Lewis (seconda parte)

Asharq al-Awsat (25/03/2013). Traduzione di Giusy Regina.

Il caporedattore di Asharq al-Awsat Adel al-Toraifi ha incontrato recentemente Bernard Lewis a Philadelphia.

Q: Ha menzionato il fatto che l’occidente spesso fraintenda la differenza tra libertà e giustizia quando parla del suo supporto ad un cambiamento democratico nel mondo arabo. Qual è la differenza tra questi due termini?

BL: In occidente parliamo del tempo della libertà. Nel mondo islamico invece la libertà non è un termine politico, bensì legale e sociale, in quanto opposto alla schiavitù, che in passato era un’istituzione accettata anche in tutto il mondo musulmano: libero se non eri schiavo. Per questo nel dibattito arabo-islamico si ha difficoltà a capire il significato politico di questo termine, pur avendo afferrato il collegamento con il governo. Ma per i musulmani la misura di un buon governo è la giustizia e di conseguenza, la parola araba che più si avvicina al nostro concetto di libertà è proprio “giustizia”.

Il contrasto dunque non è tra libertà e tirannia bensì tra giustizia e oppressione o giustizia e ingiustizia.

Q: Come può rispondere l’occidente ai cambiamenti che stanno avvenendo nel mondo arabo?

BL: Quello che mi interessa maggiormente del Medio Oriente oggi non è tanto ciò che loro (gli arabi) dicono o fanno, bensì quello che noi (occidentali) stiamo dicendo. L’importanza del Medio Oriente per l’occidente è in declino e stiamo trasmettendo segnali sbagliati. Dobbiamo invece essere chiari e più convinti del bisogno di libertà in Medio Oriente e aiutare chi lavora per ottenerla.

La vera domanda è se la democrazia può funzionare o meno nel mondo arabo. Ci sono due visioni a riguardo. La prima si definisce pro-araba e sottolinea la diversità in usi, costumi e tradizioni degli arabi rispetto a quelli occidentali. Su questa base si ammette l’incapacità per loro di costruire qualcosa come la nostra democrazia. Nella realtà però questa non è affatto una visione pro-araba, al contrario mostra l’ignoranza del passato arabo, poca comprensione del presente e ancor meno del futuro.

La seconda visione si basa invece sul fatto che gli arabi sono eredi di una civiltà grande e antica e che, nonostante abbiamo avuto tempi bui, ci sono elementi nelle loro società che le aiuteranno a sviluppare forme di governo consensuali. A mio parere questa seconda visione mostra un rispetto senza dubbio maggiore per le ambizioni e le aspirazioni dei popoli della regione, che sono gli unici a poter risolvere le loro crisi. E noi occidentali che proponiamo loro soluzioni, ci dobbiamo rendere conto che spesso esse sono screditate solo perché siamo stati proprio noi a proporle. La nostra politica e la nostra democrazia non sono le benvenute, ma le nostre armi e i nostri soldi sì.

Q: Secondo lei quali sono le sfide che la regione dovrà affrontare negli anni a venire?

BL: Ritengo che il Medio Oriente stia affrontando due problemi critici. Uno l’ho già menzionato, ovvero la collisione di idee ed identità, l’altro è il declino del petrolio come fonte di energia principale per l’economia globale. Secondo le loro stesse statistiche, il petrolio sarà esaurito in un tempo limitato e loro resteranno con niente in mano.

Q: Quali sono le sue impressioni su Bashar al-Assad? Che ruolo giocherà il settarismo in Siria?

BL: Assad è un presidente accidentale e non sarebbe dovuto diventare presidente. Sarebbe stato un londinese migliore. Quello che io ho osservato nel corso della storia è che quando le minoranze sono minacciate, invece di unirsi, sono spesso usate le une contro le altre.

Q: Guardando al trattato di pace tra Egitto e Israele dopo trent’anni, quali sono i suoi ricordi di quel momento di pace?

BL: Durante le mie visite occasionali in Egitto vedevo più o meno sempre le stesse persone. Se vai in un paese ad intervalli più o meno regolari e parli con le stesse persone ogni volta, hai l’opportunità di valutare i cambiamenti di stati d’animo e comportamenti. Dopo un’assenza di diversi anni, sono tornato in Egitto nel 1969. Nasser era ancora vivo e, pur avendolo incontrato, non ho avuto una conversazione seria con lui. Avevo notato però che molti dei miei amici avevano effettivamente cambiato stato d’animo. Ho lasciato l’Egitto con la convinzione che il paese fosse pronto per la pace. Scrissi anche un articolo a riguardo sull’Encounter, sotto pseudonimo. Da allora ci sono voluti però dieci anni prima che ciò accadesse.

Sono stato poi in Egitto diverse volte dopo, nel 1970, 1971, 1974 e sia prima  della morte di Nasser nel 1973 che dopo la Guerra dello Yom Kippur. Dopo il mio ritorno dall’Egitto nel 1969, sono stato in Israele cercando di convincere Golda Meir che gli egiziani erano pronti alla pace, consigliandole anche un approccio diretto. Non mi ha creduto, così come non mi hanno creduto Dayan e Rabin. Begin invece sì.