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La Turchia risponde al golpe fallito con la repressione dei diritti umani

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Di Fadi al-Qadi. Al-Araby al-Jadeed (24/07/2016). Traduzione e sintesi di Marianna Barberio.

Lo scorso 20 luglio il presidente turco, Recep Tayyep Erdoğan, ha annunciato lo stato di emergenza nel paese per un periodo di tre mesi, conseguenza del golpe fallito lo scorso 15 luglio. Il presidente ha così inaugurato una nuova stagione nella storia politica e sociale della Turchia. Infatti, lo stato di emergenza potrebbe influire negativamente sul rispetto delle libertà fondamentali, considerate le misure di sicurezza adottate dal governo. Pur ammettendo i danni apportati dalle forze golpiste la sera del 15 luglio contro personalità e istituzioni civili, e gli sbagli commessi (tra cui il bombardamento aereo in alcune zone di Ankara), la risposta delle autorità turche ha suscitato molte preoccupazioni sul futuro del paese, noto per la sua diversità culturale e sociale. Le misure adottate dal governo sono state immediatamente condannate perché “vendicative” e in netto contrasto con il rispetto dei diritti umani.

Nello specifico, la prima delle misure adottate, e anche la più importante, riguarda il licenziamento di 2.745 giudici e pubblici ministeri, e il conseguente allontanamento dai propri incarichi giuridici nei due giorni successivi al golpe. Alcuni rapporti turchi riferiscono che, di questi, 1.270 sono stati arrestati e i rimanenti 730 si trovano sotto custodia cautelare. A loro non è stato riconosciuto il diritto di contestare tale provvedimento o di presentarsi dinanzi alla commissione d’inchiesta; al contrario, la decisione è stata emessa in una sessione eccezionale dell’Alto Consiglio dei giudici e dei pubblici ministeri nelle prime ore del mattino successivo al golpe fallito.

Il ritmo delle azioni arbitrarie è continuato con la sospensione da parte del ministero dell’Istruzione di 1.200 impiegati, dove il numero degli impiegati pubblici licenziati dalle autorità è pari a 37 mila. Per di più, come riferito dal quotidiano filo-governativo Sabah, il Consiglio Superiore dell’Istruzione ha chiesto a ben 1.577 rettori universitari di presentare immediatamente le proprie dimissioni, il ché rappresenta un duro colpo per il principio delle libertà accademiche. La repressione riguarda anche altri accademici a cui è stato negato il diritto di condurre ricerche scientifiche al di fuori del paese fino a nuovo avviso.

Ad alimentare tale stato di “dispotismo” è stato anche l’oscuramento di 20 siti internet di informazione, eliminando la licenza a 25 organizzazioni mediatiche e l’accreditamento a 34 giornalisti; nello stesso tempo, la polizia ha diffuso un comunicato in cui si invitava i cittadini a segnalare qualsiasi post pubblicato sui social media a carattere di “propaganda nera” contro il governo. Il paradosso consiste nel fatto che il governo ha agito contro quegli stessi “canali” di cui si è servito nelle prime ore del golpe per invitare i propri sostenitori e alleati a fermare il colpo di Stato.

In altre parole, le misure adottate dal presidente Erdoğan non comprendono nessuna garanzia per i suoi cittadini, contrarie a qualsiasi stato di diritto, favorendo un eventuale scontro. È pur vero però che lo stesso presidente non si è mai trovato nella situazione di agire in maniera arbitraria contro i cospiratori, in quanto il paese ha sempre rappresentato un esempio raro nella regione di stabilità istituzionale e di apertura politica e sociale, capace di sradicare qualsiasi corrente golpista almeno nei decenni scorsi.

Fadi al-Qadi è un esperto regionale nel campo dei diritti umani, dei media e della società civile.

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