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Turchia… potenza solida anziché morbida

Con l’intervento militare in Libia, la Turchia si conferma potenza regionale

di Mohamed Taifouri, al-Araby, (07/06/2020) Traduzione e sintesi di Maddalena Goi

L’intervento militare turco, alla fine dello scorso dicembre, ha cambiato gli equilibri di potere in Libia a favore del Governo di Riconciliazione Nazionale, riconosciuto dalla Comunità Internazionale. Quest’ultimo, dopo essersi spostato da una posizione di difesa rispondendo, ad Aprile 2019, agli attacchi del Generale Haftar nella sua campagna per la conquista di Tripoli, ha lanciato l’operazione “Peace Storm” che ha rafforzato il controllo sulle città più importanti della costa occidentale dove le forze di Haftar hanno subito numerose perdite.

Un’azione militare nuova per le forze turche, simile allo scenario russo in Siria, lontano dal suo solito campo d’azione in Medio Oriente. Ma come nel caso della Siria e dell’Iraq, ha prodotto reazioni contrastanti a livello internazionale che spaziano dalla denuncia al sostegno. È tornato, infatti, alla ribalta il dibattito sulla politica del “soft power” adottata dalla Turchia sin dall’arrivo al potere del Partito della Giustizia e dello Sviluppo nel 2002.

Questa politica è diventata un marchio registrato con cui la Turchia progetta le sue relazioni internazionali. Ahmet Davutoglu, ex Primo ministro della Turchia, è stato il primo teorico di questa strategia e ha lavorato perché il paese diventasse un modello di influenza regionale con una doppia identità, nazionale e islamica, lontano dalla dipendenza assoluta all’occidente dell’era Kemalista. L’invasione americana in Iraq nel 2003, è stata la prima occasione in cui applicare questa politica.

L’ approccio della politica estera di Ankara si basava su vari capisaldi. Primo fra tutti la revisione integrale delle sue relazioni estere alla luce di una politica di “zero problemi”. Il che ha permesso di riavvicinare la Turchia a molti paesi, inclusi quelli con cui aveva rapporti più tesi. Secondo, la Turchia ha adottato una politica estera multidimensionale, che l’ha portata ad essere non solo un semplice collegamento tra le sponde del mondo orientale e quello occidentale, ma a farsi considerare come il centro della regione, dove forze politiche e aree vitali si intersecano con il mondo intero.

Inoltre, la Turchia è impegnata in diverse “questioni umanitarie” del mondo, soprattutto nel Medio Oriente dove si è trovata ad applicare per la seconda volta la sua politica di soft power alla luce delle Primavere Arabe, scoppiate nel 2011. Durante le proteste, la Turchia si è schierata a favore delle richieste legittime del popolo in funzione anti-occidentale. Tuttavia, il ritorno all’alleanza anti-rivoluzionaria ha impedito il raggiungimento di questa ambizione e da allora, la Turchia ha dovuto rivedere e rafforzare la sua politica “morbida”, e ha scelto di adottare gradualmente il potere “duro”. Parallelamente all’aumento della produzione nell’industria militare e della difesa, si è distinta per avere ottenuto una competenza di qualità nella produzione di aerei, elicotteri, missili e armi fatti in casa.

Inoltre, da metà del 2016, dopo il fallito golpe di Stato, ha stabilito nuove basi militari in Somalia, Qatar, Sudan e altre basi in Siria e Iraq. Ciò ha rappresentato un cambio di prospettiva per la Turchia, che non ha mai avuto basi militari fuori dal paese ad eccezione della presenza militare a nord dell’isola di Cipro, che risale al 1974. Lo stato turco ha approfittato del ritiro europeo e della confusione americana in Medio Oriente per imporre gradualmente il suo ruolo nella regione attraverso l’intervento militare in paesi vicini come Iraq e Siria, fino al recente intervento militare nel conflitto libico, basato su un accordo col Governo di Tripoli.

L’applicazione del potere “duro” ha permesso alla Turchia di manovrare le potenze globali di Europa, Stati Uniti e Russia, ripetendo il gioco di contraddizioni già caro all’impero Ottomano.

Ciò è stato evidente nella sua capacità di utilizzare le cause più diverse per vincere le sue battaglie (dai rifugiati, alla lotta all’ISIS e alla NATO…), fino ad assumere un ruolo indispensabile al tavolo dei negoziati per tutte le questioni legate alla regione. Ma l’essere diventata una potenza più solida comporta una doppia sfida per il governo turco: in primis la necessità di avere unità interna, che invece lascia trasparire molte spaccature, a partire dalla questione dei Curdi, passando per l’organizzazione di Fethullah Gulen, fino al ritiro dei leader del Partito della Giustizia e dello Sviluppo. In secondo luogo, la sfida che deriva dagli sviluppi della politica iraniana all’interno della regione araba.

Mohamed Taifouri, analista politico marocchino

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