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Truppe Usa in Libia?

L’opinione di al-Quds (Al-Quds al-Arabi – 16/01/2012) Traduzione di Carlotta Caldonazzo

Nessuna smentita finora dall’amministrazione Usa sui rapporti che riferiscono l’invio a Malta di 12mila soldati, che in seguitò andranno in Libia a tentare di arginare il deterioramento della situazione. D’altra parte le emittenti arabe hanno ridotto il loro interesse e di conseguenza la copertura mediatica da quando la Nato è riuscita a rovesciare il vecchio regime sbarazzandosi del colonnello e distruggendo le ultime roccaforti di Sirte e Bani Walid a spese dei loro abitanti.

Le informazioni provenienti dalla Libia secondo i reportage dei giornali occidentali raccontano che la resistenza al Consiglio nazionale transitorio (Cnt) ha riscosso un sostegno crescente in una parte dei libici e che i pilastri dell’autorià del presidente Mustafa Abdel Jalil si sono sgretolati mentre è cresciuto il peso delle milizie armate e dei loro capi locali.

Le milizie armate rappresentano la maggiore fonte di timore, soprattutto per gli abitanti di Tripoli, ma anche in gerale per la popolazione libica. La gente ha iniziato ad temere per la propria vita e per quella dei loro figli e la maggior parte delle città è diventata una foresta di fucili, dove i quartieri sono suddivisi tra le milizie rivali. Queste ultime fanno riferimento essenzialmente a quattro gruppi principali, dei quali i più forti è quello di Zentan. Ci sono poi le falangi del Consiglio militare di Tripoli, guidate da Abdel Hakim Belhadj, quelle di Misurata e l’esercito nazionale libico comandato dal capo di stato maggiore Khalifa Haftar.

Osama al-Juwayli, ministro della difesa nel governo di Abdel Rahim Al-Keyb, ha promesso più volte di togliere le armi dalle città e di sciogliere le milizie, assorbendone i combattenti nell’esercito. Promesse tuttavia mai mantenute, anche perché non c’è stato un vero impegno in materia. Di conseguenza il caos a livello securitario resta dilagante.

D’altronde i paesi occidentali non si preoccupano di agire come richiederebbe la situazione e finché il petrolio libico scorre a fiumi verso i loro porti si rallegrano di aver rovesciato il vecchio regime. Il caos infatti non li riguarda né da vicino né da lontano, a meno che non emerga una resistenza armata che possa minacciare l’industria petrolifera libica colpendo gli oleodotti che conducono ai centri di esportazione.

Le statistiche in Occidente riferiscono che la produzione di petrolio libico ha iniziato ad avvicinarsi ai tassi di prima dell’intervento militare della Nato, ovvero un milione e mezzo di barili al giorno. Un fatto che giova ai paesi che lo consumano maggiormente, come Francia, Italia, Germania e Olanda. Infatti il petrolio libici è leggero e di buona qualità, sweet and light, adatto alle raffinerie europee progettate in relazione a materie prime come la benzina raffinata (ad esempio i carburanti per gli aerei).

Il popolo libico si è ribellato contro il vecchio regime e una buona maggioranza ha appoggiato l’intervento della Nato per rovesciarlo, nella speranza di conquistare sicurezza e stabilità e di godere dei guadagni del petrolio che arrivano a sessanta miliardi di dollari l’anno. Invece la sicurezza si è deteriorata, è aumentato il conflitto tra le milizie e tutto questo probabilmente porterà a disperazione e frustrazione.

Ci sono dossier occidentali che riferiscono che la nuova Libia subisce attualmente una colonizzazione di tipo diverso, mentre le forze Nato ancora sono sul posto sia pure indirettamente. Altri dossier raccontano che sono loro a controllare la maggioranza dei pozzi di petrolio libici e dei centri di esportazione.

Si attende dunque l’arrivo di osservatori arabi e stranieri in Libia, che dovrebbero presentarci un quadro veritiero di ciò che accade, in una fase di buio mediatico. Dovrebbero rispondere a molte domande come le cause degli scontri di Gharyan la scorsa settimana e prima ancora di quelli di Tripoli. Inoltre dovrebbero informare su cosa stia accadendo nella Libia orientale e sul Jebel al-Akhdar, su quale sia la situazione a Misurata , ma soprattutto su quale sia il destino di migliaia di prigionieri nelle carceri delle milizie, soprattutto di quelli provenienti dall’Africa subsahariana, accusati di aver sostenuto il vecchio rgime e di aver combattuto per esso.

L’abbattimento di un regime dittatoriale è un buon passo, ma potrebbe trasformarsi in un disastro se l’alternativa diventasse il caos, la mancanza di sicurezza, la rivalità tra le milizie e un’occupazione occidentale latente o conclamata.