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Daish, terrorismo e globalizzazione

Di Jemal Oumar. Magharebia (17/10/2014). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo.

In un’epoca di imperialismi e tentativi di imporre modelli economici e politici, Daish (conosciuto in Occidente ISIS) non fa eccezione e tenta di espandersi in Asia e Africa. Due le organizzazioni che ricordano il suo modus operandi: il Gruppo islamico armato (GIA) algerino e i cartelli della droga sudamericani e asiatici. Priorità, il controllo del territorio, indispensabile garanzia di reddito e nuove reclute.

Dalla morte di Osama bin Laden, Al-Qaeda si è divisa in cellule regionali la cui rete di comunicazioni si è via via indebolita. Un vuoto che i cartelli del jihad intendono colmare: a Daish hanno già giurato fedeltà diversi gruppi terroristici sia asiatici che africani, nonostante la scomunica formale dell’attuale capo di Al-Qaeda Ayman al-Zawahiri. Anche se nel Sahel ancora si è ai livelli di criminalità organizzata. Le ragioni di tale successo non risiedono solo nei mezzi ma anche nei contenuti della propaganda.

Diversamente da Al-Qaeda e in modo simile (tranne differenze di contesto) al GIA algerino, il “califfato” si pone come alternativa esplicita al modello dello stato nazione, importato dall’Occidente anche nella divisione territoriale, cui oppone un impero capace di fronteggiare imperialismi regionali e mondiali. Uno dei motivi di questo forte accento sul modello alternativo di gestione territoriale è la crescente contestazione di quelli vigenti, in atto non solo nel mondo arabo e asiatico (ad esempio contro il land e water grabbing delle multinazionali con la compiacenza dei governi locali), ma anche in Occidente, come dimostra l’ascesa di movimenti e forze politiche che fanno della distruzione politica il loro cavallo di battaglia.

Un atteggiamento che dipende più dalla mancanza di alternative e dall’omologazione dilagante che da spirito di ribellione. Il successo dei cartelli del jihad dunque affonda le sue radici nel malcontento, o meglio della disperazione sociale. Se le ingiustizie insite nel capitalismo produttivo hanno offerto terreno fertile alla nascita di ideologie che propugnano l’inclusione (come quella del movimento naxalita in India, che alle caste oppone l’uguaglianza), l’impoverimento generalizzato causato dal capitalismo finanziario, unito all’isolamento dei lavoratori, spiana la via a sistemi di pensiero fortemente egoistici e aggressivi. Anche rispetto a diversi modi di pensare.

I grandi accordi economici internazionali inoltre privano i singoli stati (già di per sé raramente rappresentativi, spesso governi fantoccio) della capacità di garantire la sicurezza alimentare dei propri cittadini. La scelta, spesso, non è tra diverse idee ma tra diversi padroni o elargitori di denaro, in assenza di reddito e giustizia sociale. Alla corruzione si oppone dunque, in modo manicheo, la purezza e gli spiriti si radicalizzano lasciando poco spazio al confronto dialettico. Un ottimo canale per la rabbia diffusa contro oppressori vicini e lontani.

Le derive autoritarie dei governi usciti dalle rivolte arabe hanno accentuato rabbia e frustrazione di porzioni sempre crescenti di popolazione. Inoltre, da decenni in gran parte dei paesi emergenti i partiti laici sono stati sradicati con il sostegno o la compiacenza della comunità internazionale. Si pensi al burkinabè Thomas Sankara, al palestinese Marwan Barghuti o al partito comunista egiziano. Affiliarsi a organizzazioni come Daish diventa dunque come unirsi ai cartelli della droga. Stipendio in cambio di manodopera e fedeltà, dai traffici illeciti al terrorismo.

Jemal Oumar è corrispondente di Magharebia a Nouakchott.

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