Politica Zoom

Tamburi di guerra contro l’Iran

di Javier Valenzuela (El Paìs – 20/01/2012) – Traduzione di Claudia Avolio

Il brutto dei giochi di guerra è che a chiunque potrebbe scappare un colpo, e a quel punto s’innesca la miccia della rabbia. Appare molto allarmante, perciò, che gli Stati Uniti ed Israele da una parte, e l’Iran dall’altra, stiano mettendo in moto una feroce guerra segreta. Spionaggio, attentati, omicidi perpetrati per via del programma nucleare del regime degli ayatollah; questo avanzare impettito verso lo Stretto di Hormuz e l’alzare il volume dei propri tamburi di guerra. Potrebbe essere tutto un bluff, ma stanno giocando con il fuoco. In una delle zone più infiammabili del pianeta, tralaltro. La buona notizia è che Obama non vuole questa guerra, cosa che invece – come osserva Antonio Caño da Washington – sarebbe stata già in atto con qualunque altro politico eletto alla Casa Bianca. Obama si dimostra più illuminato dei falchi israeliani e nordamericani: una guerra in Iran sarebbe un disastro per la comunità internazionale al pari o anche più di ciò che è stata in Iraq. Se questa guerra si limitasse ad un attacco aereo contro determinate installazioni iraniane, forse riuscirebbe a far regredire il programma nucleare degli ayatollah. Ma ciò avverrebbe a costo di rinforzare la legittimità interna del loro regime, donandogli un’aura di martirio su scala regionale e in tutto il mondo musulmano; due regali del cielo per gli eredi di Khomeini. E se ciò includesse una invasione via terra, dovremmo prepararci ad anni di ulteriori turbolenze sanguinolente per il pianeta.

Il regime iraniano è oggi più debole che in qualunque altro momento delle sue tre decadi di storia. Sarebbe intelligente adottare una strategia che ne acceleri l’agonia, piuttosto di una che gli regali ossigeno in più. Finora il khomeinismo rimane uno dei grandi sconfitti nella primavera araba. Ha perso ogni sorta di legittimità con il broglio elettorale del 2009 e le manifestazioni di Teheran in quell’anno hanno confermato come il khomeinismo risulti terribilmente rancido per la gioventù urbana iraniana. Due anni dopo, le rivoluzioni secolari di Tunisia ed Egitto hanno ridotto ancor più le sue aspirazioni di convertirsi in un referente ideologico e politico che trascenda il mondo sciita tra cui le comunità sciite di Iraq, Bahrain e Libano. La Repubblica Islamica dell’Iran terrà le elezioni legislative il prossimo marzo e le presidenziali nel 2013. La sua situazione interna è di ristrettezze economiche per la maggior parte della popolazione e di divisioni politiche in seno allo stesso regime. Al confronto tra riformisti e conservatori nel 2009, si sono aggiunte querelles interne a questi ultimi, ed in concreto anche lo scontro tra il presidente Ahmadinejad ed il leader supremo l’ayatollah Khamenei. Neanche la sua situazione internazionale appare delle migliori. Ahmadinejad può anche essere stato ricevuto cordialmente a Caracas e a La Havana, ma il valore del regime che presiede è sceso di molto in Medio Oriente. La primavera araba ha privato di fascino il modello khomeinista, settori islamici compresi, e ha messo alle corde il suo unico alleato arabo: la dittatura siriana degli Assad.

Tra gli arabi, l’influsso dell’Iran si limita agli sciiti (e ai suoi parenti alawiti) mentre cresce quello della Turchia. L’Iran khomeinista è una nazione con 70 milioni di abitanti, dotata di grandi risorse petrolifere. Ha uno Stato solido per la media del Medio Oriente, ed una abile diplomazia. La sua scalata regionale nel primo decennio del ventunesimo secolo è stato il frutto tanto di una astuta combinazione tra forza e prudenza, quanto di tutta una serie di casi fortunati. Il naufragio dell’Unione Sovietica lo ha liberato dalla spada di Damocle della minaccia comunista. L’invasione dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti ha eliminato il disagio del vicino talebano. E gli stessi Stati Uniti hanno rovesciato il suo grande rivale, Saddam Hussein, aprendogli le porte della comunità a maggioranza sciita in Iraq. Ma a partire dal 2009 il vento è cambiato per la Repubblica Islamica. Il broglio elettorale di Ahmadinejad e il suo allora difensore l’ayatollah Khamenei, ha scatenato un’onda di manifestazioni giovanili a Teheran, che hanno anticipato quelle tunisine ed egiziane del 2011. La differenza più significativa di queste proteste a confronto con quelle del 2009 – che iniziarono a scavare la fossa per il regime, malgrado il suo decesso stia tardando alcuni anni – è stata che Khamenei ed Ahmadinejad hanno allora demolito la principale legittimità del khomeinismo, ordinando ai loro sicari di aprire il fuoco contro le folle che nelle vie torride e sulle terrazze di Teheran gridavano “Allahu Akbar” esibendo il colore verde dell’Islam. Nell’estate del 2009 non era immaginabile l’immediato collasso d’un regime che ancora contava su un certo supporto popolare e che aveva resistito nella sua fortezza sopravvivendo a una devastante guerra con l’Iraq di Saddam e a 30 anni di ostilità statunitense ed isolamento internazionale.

E di fatto questo collasso non si è ancora prodotto, anche se certamente la primavera araba non è giunta come una buona notizia all’orecchio di Khamenei e Ahmadinejad. Conferma semmai agli iraniani di come sia possibile ottenere la democrazia partendo da una battaglia domestica. In tali circostanze, un attacco esterno – israeliano, nordamericano o congiunto – rafforzerebbe il bunker khomeinista nel permettergli di far appello all’unità nazionale circa l’aggressione tanto dell’Islam quanto del nazionalismo persiano. Inoltre, una azione di questo tipo potrebbe provocare una crisi petrolifera mondiale, estendendo la guerra e le fiamme del terrore al Medio Oriente e oltre. Influenzerebbe negativamente sulla primavera araba togliendo visibiltà ai combattenti della democrazia e concedendola ad alleati dell’Iran come la Siria degli Assad ed i movimenti di Hezbollah e Hamas. Non è precisamente questo di cui ha bisogno, nel 2012, il nostro mondo depresso. Dalla sua nascita nel 1979, dopo il rovesciamento del vassallo di Washington che era lo Shah, il regime degli ayatollah ha vissuto nel costante timore di venir aggredito direttamente dai nordamericani. E’ possibile che ritenga il possedere armi nucleari la sua unica garanzia ad evitarlo. Tuttavia risulta difficile immaginare che, se anche le possedesse, sarebbe il primo ad usarle contro Israele. Non solo ucciderebbe moltissimi palestinesi, ma si esporrebbe anche a devastanti conseguenze. E gli ayatollah non sono così fuori di testa. Israele ha armi nucleari e tutto il mondo lo sa. E’ molto ben raccontato nel libro The worst kept secret (Il segreto tenuto peggiormente) di Avner Cohen. Ora Israele parla della “minaccia esistenziale” che per lei sarebbe un Iran con armi nucleari.

Ma è opportuno ricordare che gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica hanno vissuto con questa spada di Damocle per decenni e solo il crollo del regime totalitario di Mosca ha dato ad entrambe le potenze (e al resto del mondo) una tregua ragionevole. Le democrazie (anche se risulta generoso qualificare così la Russia di Putin) non si fanno la guerra. Per essere esaustivi, dovremmo porre la questione in un altro modo. E se, invece di lanciare un’azione militare che ponga fine al regime khomeinista dandogli prestigio a livello interno e regionale, le democrazie optassero per un reale impegno nell’estensione delle libertà e dei diritti nel mondo arabo e nello stesso Iran? E se appoggiassero davvero la democratizzazione in Egitto, la caduta della tirannia siriana degli Assad e la nascita di uno Stato Palestinese? Dove sta scritto che alla primavera araba non possa seguire una primavera persiana? Potrebbe essere questa, più o meno, la visione di Obama. Ma come è già stato dimostrato a proposito del caso palestinese, il presidente nordamericano ha le mani legate in Medio Oriente (ed in molte altre cose). Malgrado non desideri una guerra contro l’Iran, gli ultras di Israele stanno facendo tutto il possibile per trascinarcelo. Nella sua più recente colonna sul New York Times, l’analista Roger Cohen suggerisce la possibilità che Israele lanci un attacco per conto suo nei prossimi mesi. I suoi molti amici negli Stati Uniti applaudirebbero infervorati e Obama si ritroverebbe così privato dell’autorità e davanti al fatto compiuto. Dallo stesso titolo della sua colonna, “Don’t do it, Bibi” (Non farlo, Bibi), Cohen esorta Netanyahu a non imboccare questa strada. Anche per Israele sarebbe una calamità.