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Storia di un giovane siriano che sente il peso delle nuove regole in Libano

Libano Siria, Hani Abbas - Rifugio

Di Justin Salhani. Al-Monitor (20/01/2015). Traduzione e sintesi di Claudia Avolio.

In copertina una vignetta dell’artista siro-palestinese di Yarmouk Hani Abbas

Seduto fuori da un bar nel quartiere Mar Mikhail di Beirut, Firas (pseudonimo) tiene una sigaretta tra le dita, una bibita nell’altra mano ed il peso del mondo sulle sue spalle. “Non sono un rifugiato, sono autosufficiente”, dice con la voce che si spezza e le lacrime che per un attimo gli affiorano agli occhi. Firas ha due lavori, uno in un ristorante e l’altro in un pub. Le sue vere passioni sono recitare, rappare e la stand-up comedy. “Nessuno sa cosa sta succedendo”, dice dopo essersi ricomposto.

Firas è un artista e musicista siriano di 27 anni che ha lasciato la sua casa ad Aleppo per non dover entrare nell’esercito. Ha un permesso di soggiorno rispetto ad oltre un milione di siriani registrati in Libano come rifugiati. Ma il suo permesso scade a febbraio e gli è stato detto che non glielo rinnoveranno. Firas sospetta che a giocare un ruolo nella decisione delle autorità sia la nuova serie di regolamentazioni imposte sui siriani che vogliono entrare in Libano.

Un siriano che cerchi di entrare nel Paese deve ottenere un visto turistico, medico, lavorativo, di breve permanenza, da studente o di transito. Dalla sicurezza generale libanese hanno specificato che non si tratterebbe di un visto tradizionale ma di un documento legale che attesti le ragioni dell’arrivo in Libano. “Molti dei siriani soffriranno parecchio, tra i miei amici non sono in pochi a star pensando di lasciare il Libano”, dice Mohammad, siriano a Beirut che non ha lo status di rifugiato. Gruppi per i diritti umani hanno fatto appello affinché il Libano continui ad accettare i siriani che scappano per salvarsi la vita, cosa che il diritto internazionale rende obbligatoria. Mettono anche in guardia dal fatto che le nuove regolamentazioni potrebbero portare a casi di abusi e sfruttamento.

Lama Fakih, ricercatrice presso Human Rights Watch specializzata in Siria e Libano, fa notare come “il ruolo dello sponsor ricorda i rifugiati iracheni in Kurdistan e Giordania”, richiamando all’attenzione casi in cui cittadini locali potevano rendersi “sponsor” dei rifugiati, permettendo loro così di vivere fuori dai campi. Tra gli inconvenienti la studiosa cita i casi di cittadini locali che sfruttavano i rifugiati, chiedendo loro pagamenti in cambio dello sponsor. Per Fakhi inoltre i siriani potrebbero anche temere di denunciare abusi fisici o di altra natura alle forze di sicurezza per via del loro status.

Così ora Firas deve trovarsi uno sponsor. Per fortuna in uno dei luoghi in cui lavora gli hanno detto che prenderanno in considerazione l’idea di sponsorizzarlo in cambio del lavoro che svolge lì, ma lui sa che questo significa essere alla totale mercé del proprietario. Ha anche pensato di spostarsi in un terzo Paese, ma il suo passaporto scade troppo a breve. Firas ha paura di essere arrestato ed immediatamente arruolato nell’esercito se sarà obbligato a tornare in Siria. Un ragazzo solare, pieno d’energia positiva, la sua forza d’animo sta lentamente svanendo in questo dover costantemente avere a che fare con una guerra che non ha mai voluto.

“Non c’è nessuna via d’uscita”, dice con aria sconfortata, “Se mi mandano indietro in Siria, mi spediscono verso la morte. Mi sparerei prima di essere mandato a morire sulle linee del fronte”.

Justin Salhani è un giornalista free-lance che vive a Beirut, in Libano.

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