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Siria, i fragili accordi, la fame e l’indifferenza. Intervista a Shady Hamadi

Intervista di Katia Cerratti

A pochi giorni dall’accordo raggiunto tra Kerry e Lavrov per il cessate il fuoco in Siria e per una lotta congiunta all’Isis, lo scenario siriano resta grave. La tregua praticamente violata, ancora civili uccisi, gli aiuti umanitari bloccati al confine tra Turchia e Siria, la popolazione stremata dalla fame. Le responsabilità e i reciproci interessi si intrecciano, rimbalzano da una parte all’altra, il governo e i ribelli si accusano a vicenda, sulle roccaforti jihadiste continuano i raid aerei mentre le postazioni curdo-siriane non sono ben viste da Ankara. Filo rosso di questa tragedia, l’indifferenza della comunità internazionale, a partire dalle élites arabe, mentre si fa sempre più chiara l’idea che da più parti ci sia la volontà di ‘gestire’ questo tragico groviglio e non di risolverlo.

hamadi-esilio-cover-webShady Hamadi, giovane scrittore italo-siriano, autore di Esilio dalla Siria (2016), nella nostra intervista chiarisce alcuni aspetti di questa tragedia che si consuma ormai da cinque anni e che ha visto sparire più di 71mila persone.

Russia e Usa hanno appena raggiunto un accordo per il cessate il fuoco in Siria e per fare fronte comune nella lotta all’Isis. Quanto lo ritieni credibile e, soprattutto, quanto può durare?

Pochi giorni fa 150 intellettuali, artisti e accademici siriani hanno pubblicato un appello contro questa intesa che ritengono immorale e volta a ripristinare lo status quo. Immorale, nel senso che nel 2011 gli Stati Uniti si sono dichiarati amici del popolo siriano e della volontà di cambiamento che molti siriani hanno chiesto. Nel 2011 Hillary Clinton dichiarò che Assad doveva andarsene, mentre oggi USA e Russia cooperano, probabilmente non da quando è stata firmata l’intesa, nella lotta all’Isis ma tutte le altre questioni, come ricordano gli intellettuali, sono irrisolte. C’è l’idea diffusa che gli schieramenti che si fronteggiano in Siria, si intende gli attori regionali e internazionali, siano disposti a accordarsi per portare avanti le proprie agende a breve termine. Del popolo siriano massacrato dal fondamentalismo e dai bombardamenti indiscriminati di russi, governo siriano, americani e altri a nessuno sembra più, o mai, interessare.

La comunità internazionale ha mostrato un interesse intermittente, o part-time come lo definisci tu, nei confronti della questione siriana, malgrado la tragedia si consumi già da 5 anni. Come lo spieghi?

L’opinione pubblica è abituata a vedere ogni coinvolgimento da parte di governi occidentali nel teatro mediorientale come qualcosa di non buono. Si domandano “cosa c’è dietro?”. I governi europei sono interessati a far si che i profughi non arrivino in europa e quindi appaltano questa “questione” a governi non democratici che risolvono la questione bloccando i flussi. Ma come li blocchino a nessuno pare importare. Gheddafi faceva prigioni nel deserto, ci dicono testimonianze uscite sui grandi giornali, anche italiani, dove migliaia di persone non sono più uscite. Poi, c’è la paura dell’Isis, la nostra paura che ci fa prediligere governi autoritari, come quello siriano, che ci garantiscono la stabilità e in cambio chiedono di non alzare la voce sulla loro violazione dei diritti umani. Infine, c’è una questione di comprensione. Non abbiamo ancora capito cosa è la primavera araba ma siamo indaffarati a liquidarla in inverno.

Quale è la tua lettura dell’intervento militare messo in atto dalla Turchia dal 24 agosto scorso e implementato nei giorni scorsi? E’ una guerra al’Is o ai curdi?

Dimostra che Erdogan si comporta come tutti gli attori: oggi nemici domani amici. La Turchia è entrata in Siria principalmente per mettere in sicurezza parte del confine sirano turco, per far si che il Rojava non si unisca al “Cantone di Afrin”. YPG, braccio siriano del Pkk, è stato sponsorizzato e aiutato da Washington che li ha poi lasciati quando è stata data l’autorizzazione a Erdogan a mandare le truppe per creare una zona cuscinetto. Il benestare è stato dato anche da Damasco e da Mosca, non a caso Erdogan ha visitato Mosca e Hakan Fida, capo dei servizi segreti turchi, è andato a Damasco, a quanto dice As-Safir, quotidiano libanese vicino a Damasco.

In un articolo del tuo blog scrivi: ‘la Siria è diventata il simbolo del fallimento del mondo’. Puoi spiegarci meglio questa amara sintesi, seppur reale, della tragedia siriana?

Nel senso che è una terra dell’impunità: fai fosse comuni, usi gas letali; ammazzi mezzo milione di uomini e sei sicuro di non essere perseguitato da nessun tribunale internazionale. L’Onu può mandare aiuti umanitari nelle zone sotto assedio solo con il benestare di Damasco e Teheran. Il Guardian poi ha fatto una inchiesta proprio riguardo ai finanziamenti erogati dalle Nazioni Unite a organizzazioni siriane vicine al governo di Damasco, nel senso che una è gestita dalla moglie di Assad, Asmae. Stiamo parlando di centinaia di milioni dati a chi è responsabile del disastro umanitario. Poi, c’è una questione morale. L’ipocrisia di destra e sinistra, di un mondo culturale e pubblico intorno alla questione siriana. Fra trent’anni ci accorgeremo del disastro siriano ma sarà già passato troppo tempo e nessuno pagherà, né si faranno mea culpa.

Spesso sono i bambini a ricordarci l’orrore di una guerra, come Omran, che in ambulanza guardava il mondo sconcertato, o i bambini che abbiamo visto in queste ultime ore, intossicati dai gas al cloro.  Ma l’onda emotiva dura poco e l’indifferenza riprende il sopravvento. Nel tuo ultimo libro “Esilio dalla Siria” questo termine si incontra spesso. L’indifferenza miete vittime tanto quanto un bombardamento e forse anche di più?

Certo,  la stessa cosa che avveniva durante la seconda guerra mondiale. Sapevano cosa avveniva nei campi di concentramento ma non hanno fatto nulla. La stessa cosa possiamo dirla per la Siria: sappiamo tutto quello che avviene, non abbiamo bisogno di Omran per ricordarcelo, ma a nessuno importa perché il dolore degli altri non ci appartiene.

Bashar al-Assad dichiarò che l’Isis non è nato in Siria ma in Iraq dagli errori dell’Occidente. Quali secondo te?

La mala gestione del post Saddam. Gli americani hanno dato il potere agli sciiti che hanno emarginato i sunniti. L’isis è nato dal malessere sunnita che non abbiamo voluto riconoscere. Ma non possiamo dire che Assad e altri, anche quelli che reputiamo buoni, non stiano usando l’Isis per portare avanti le loro agende.

E quelli delle élites arabe?

Le élites arabe sono le maggiori responsabili locali di quello che avviene nel mondo arabo. Gestiscono, dal Libano all’Arabia Saudita, il potere in maniera clientelare, oserei dire mafiosa. Se ci facciamo caso, i partiti vengono ereditati. Prima c’era Hariri padre ora il Figlio; prima Jumblat padre e poi il figlio. Bisogna fare una rivoluzione culturale che è possibile attuare se creiamo le condizioni di libertà. La libertà viene prima di tutto, anche della democrazia che è solo una conseguenza.

La paura dell’Isis in Europa è stata volutamente enfatizzata per sminuire la gravità della tragedia siriana?

Direi che è stata una delle conseguenze. La verità è che c’è un rapporto stretto fra populismo e radicalismo: crescono di pari passo. Se osserviamo l’europa noteremo che dal 2013, da quando è nato l’Isis, questi partiti sono cresciuti. C’è una responsabilità anche di chi racconta questi fenomeni.

Cosa pensi del piano di transizione politica proposto nei giorni scorsi a Londra dall’Alto Comitato per i Negoziati (HNC) dell’opposizione siriana?

Credo che sia una buona proposta.

L’umanità è davvero finita ad Aleppo’ o c’è ancora una chance per la Siria?

C’è sempre una chance. Ma non stupiamoci se avremo una Siria che per decenni sarà instabile a meno che non ci sia una restaurazione che cancellerà quello che è avvenuto. Se così fosse, la Siria per noi sarebbe ancora peggio.