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Siria, casa dolce casa

Zoom 16 ott SiriaDi Luna Safwan. Now Lebanon (16/10/13). Traduzione e sintesi di Alessandra Cimarosti.

La Siria, un tempo un paese unito, confinante col Libano, il mar Mediterraneo, la Turchia, l’Iraq e la Giordania, non può più essere definita in questo modo. Due anni di conflitto l’hanno frammentata con più di 100.000 morti, infiniti feriti e un numero indefinito di cittadini e attivisti rapiti e detenuti. Nel 2011, quando la rivoluzione siriana stava iniziando, molti non sapevano che sarebbero tornati indietro. Ma ora ci sono persone che hanno deciso di metter fine alla loro vita all’estero e tornare in Siria.

Omar – supporto medico e tecnico

Omar lavorava nell’assistenza medica. Quando iniziò la rivoluzione, decise di sfruttare le sue conoscenze informatiche per organizzare manifestazioni e documentarle, pubblicando il materiale online. Dopo aver subito un infortunio, decise di trasferirsi in Egitto per evitare di finire imprigionato in Siria. Sarebbe voluto rimanere in Egitto non più di un mese, ma visto che in Siria le cose peggioravano, decise di rimanere per studiare e lavorare. Continuò ad assicurarsi che giungesse in Siria il suo sostegno tecnico e medico e continuò a condividere notizie e report online. Tutto quello che aveva però – famiglia e amici, istruzione e lavoro, e in primo luogo la rivoluzione – era in Siria. Visto anche che anche la situazione in Egitto non fa che peggiorare (la popolazione egiziana accusa i siriani di essere “Fratelli Musulmani” e di partecipare in modo violento contro gli egiziani, nelle manifestazioni) ha deciso di tornare.

Mohamed – fotoreporter

Mohamed lasciò la Siria nel 2012. Le forze di sicurezza avevano ripetutamente invaso la sua casa, così decise di andare a Beirut. Iniziò a lavorare con gruppi volontari per compensare ciò che aveva perso in Siria, ma non riuscì a rimanere e tornò a al-Ghouta. “Migliaia di persone partono ogni giorno, quanti però ritornano?”. In molti aiutavano dall’estero, in pochi dall’interno e ciò lo rattristava. Era deluso da chi, fuggendo in altri paesi, aveva dimenticato la crisi siriana. E’ questo ciò che lo spaventa. Continua a credere fermamente che è responsabilità di ogni siriano non dimenticare la propria terra.

Alaa – giornalista

Alaa lasciò la Siria circa due anni fa, dopo aver disertato l’esercito siriano. Raggiunse la Turchia in modo illegale e iniziò a lavorare come giornalista in diverse istituzioni. Alaa odia molte cose al di fuori della Siria, si sente inutile e impotente. Non ha imparato il turco perché pensa che tornerà presto nel suo paese. “Entrambe le parti stanno mentendo, dall’esterno non si può fare niente di importante. Il vero lavoro è sul campo, in Siria”, insiste. “Tutti teorizzano, ma nessuno intavola dialoghi con la popolazione siriana. Nessuno si avvicina alle difficoltà della gente, al vero problema. La nostra crisi non è solo umanitaria: è diventata una crisi culturale”. Alaa vuole tornare per capire e investigare sui bombardamenti, sulle morti, sulle detenzioni. “Io sono in Siria, testa, corpo e anima”.

Burham – aiuto umanitario

Burham lasciò la Siria nel novembre 2011, dopo aver organizzato molte proteste. Ricercato dalle forze siriane, si trasferì prima a Beirut, dove lavorò come volontario, in seguito in Svizzera, dove però non riesce a stare bene. “Sono lontano dal mio paese che sta vivendo la rivoluzione. Ho perso molti familiari e amici, devo tornare. Il mondo ha fallito offrendo aiuto alla Siria, nessuno può salvarci, se non noi stessi”. Prima che il regime cada, vorrebbe apportare il proprio supporto; armi e combattimento sono l’ultima soluzione, ma “se fosse necessario, lo farei”. Sta progettando di lavorare sullo sviluppo umanitario, perché “il regime è riuscito a distruggere la struttura sociale ancor prima delle infrastrutture”.

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