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SH-J-R, la scelta degli alberi

Egon Schiele - Quattro Alberi (1917)
Egon Schiele - Quattro Alberi (1917)
Egon Schiele – Quattro Alberi (1917)

Oggi è il mio compleanno e volevo regalarvi quel che la lingua araba ha regalato a me: la scelta degli alberi.

Da anni io provo a crescere verso il basso, come gli alberi (ashjār). Da quando l’ombra di una pianta (nabāt) sul mio balcone mi ha mostrato come si fa: mentre la pianta saliva, l’ombra si allungava in giù. Volevo anch’io allungarmi verso il basso, per provare a crescere a fondo. Poi è stata Roma a spiegarmi gli alberi per filo e per segno. Gli altissimi pini (ṣanaubara), sospesi come creature di Magritte. Passando accanto ai loro rami (ghuṣūn) appena potati, mi sembravano bambini usciti prima da scuola. La striscia in plastica bianca e rossa da non oltrepassare era il loro grembiule appena sfilato, riposto con cura ai piedi del prato (marj).

Ancora i maestosi platani (dulb), sporti sul Tevere come attratti da una calamita d’acqua, e in quei lunghi viali freschi e ombrosi dove coi loro grandi rami si riposano un po’ poggiando le ombre delle foglie (waraqa) sui fianchi dei palazzi. Per me nel tronco (sāq) di ogni platano c’è qualcuno in missione che – a testa in giù – sta cercando di raggiungere il centro della Terra, il nucleo. Sono astronauti del terreno, io li chiamo nucleonauti: vogliono spingersi fino al cuore delle cose, a quella verità che non potranno sfiorare senza rischiare di bruciarsi le vele alari. La spessa corteccia (liḥā’u ash-shajar) dei rami dei platani è una corazza per le gambe di questi esploratori che si muovono velocissime per darsi la spinta. È come se Bellmer le avesse ritratte: due gambe diventano otto, sedici rami, riprese in ogni loro movimento spazio-temporale.

Scrivo di queste immagini solo per dire che, ogni qualvolta ho guardato gli alberi, finora, li ho guardati davvero. Significavano già molto per me. Eppure è stata la lingua araba, solo lei, a svelarmi il segreto che custodiscono. Per l’arabo convivono in essi due forze contrapposte: shajjara, il piantare alberi, e shājara, il litigare con qualcuno. I due poli di questa radice attraggono verso ciò che è shajir, ricco di alberi, e quel che comporta shijar, una rissa. È come se per ogni foglia, ramo, tronco, radice che i miei occhi incontrano, la lingua araba mi chiedesse: “Be’, cosa vuoi fare? Un’altra rissa tra sinapsi? O stavolta farai spazio alle gemme di un sempreverde cerebrale?”.

“Assomiglia di nuovo all’albero che ami,” mi ha sempre esortato Nietzsche, ed è Gabriel Garcìa Màrquez nei suoi racconti in Occhi di cane azzurro a ricordarmi ciò di cui le radici si prendono cura: “Sapeva che sotto ogni arancio, nel mondo intero, c’era un bambino sepolto che raddolciva i frutti con la calce delle sue ossa”. Il Corano dedica una delle immagini più poetiche proprio agli alberi, nella Sura di Luqmān, al Versetto 27 che recita: “Sì, e se tutti gli alberi sulla Terra diventassero calami e il mare e sette mari ancora diventassero inchiostro, le parole di Dio non sarebbero esaurite” (trad. Gabriele Mandel, ed. UTET).

Gli alberi che non potrò mai dimenticare sono quelli in “Mamadou va a morire” di Gabriele Del Grande. Nella città universitaria Mohamed V del Marocco (“in città è rimasto l’unico luogo protetto”, ci spiega l’autore) vediamo gli alberi assumere questo valore: “Al calore del sole tra i rami degli alberi spuntano dalla notte decine di ombre in piedi sopra il muro in un molleggiato andirivieni. Sono gli abitanti del campus. I deportati. Vivono dietro il campo di basket, a ridosso del muro della facoltà, sotto gli alberi”. E poi sui monti: “Nei fitti boschi di pini sul massiccio del Gourougou, una montagna di 900 metri d’altezza alle spalle della città spagnola, per anni hanno vissuto comunità di tutta l’Africa nera, un migliaio di persone in tutto, in attesa di saltare la rete”. Leggetelo, per comprendere a chi si riferisce, e quegli alberi forse non li scorderete più nemmeno voi.

Ho imparato molto di questa radice anche dalla lettera che Egon Schiele scrisse nel 1913, raccolta nel volume Taschen a lui dedicato: “Al momento osservo soprattutto il movimento corporeo delle montagne, dell’acqua, degli alberi e dei fiori. Dappertutto possiamo notare movimenti simili a quelli del corpo umano, sentimenti affini alla gioia e al dolore delle piante”. Ecco il suo desiderio legato agli alberi: “Sia coll’essere che col cuore si può percepire intensamente un albero autunnale in estate; questa malinconia la vorrei dipingere”.

A portarseli davvero nel cuore era anche la poetessa russa Marina Cvetaeva: “Io posso amare solo la persona che in una giornata di primavera a me preferità la betulla” (batūla). E scriveva a una sua carissima quercia (balluṭa) di nome Boris Pasternak: “Dio vi aveva concepito come quercia, e poi vi ha fatto uomo, e su di voi cadono tutti i fulmini e voi dovete vivere”. Mentre ci azzuffiamo, in baruffe personali o orchestrali litigi, proviamo ad invertire il nord di quella bussola trilittera: potrebbe essere solo questione di orientare le vocali. In direzione degli alberi.

Claudia Avolio