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S-K-N, silenzio, dove abiti?

ziryab, suonatore di liuto

ziryab, suonatore di liutoNon so bene perché, ma per me una delle cose più carine che si imparano studiando arabo è niente più che un minuscolo cerchietto che si scrive alla fine di una parola: il sukun. Si tratta, in pratica, di un segno che indica come su quell’ultima consonante non ci sia vocale da pronunciare. Una pausa della voce. Ebbene, questa minuscola notazione grammaticale è legata a un verbo meraviglioso, sakana, che significa anzitutto “essere calmo”. Ma il verbo sakana – yaskunu non vi ricorda anche qualcos’altro? Con questa radice la lingua araba esprime il concetto di abitare, risiedere. Sembra una dimora, il silenzio, che in un proverbio arabo diviene “la medicina per il dolore”. Parla solo se ciò che hai da dire, dice un altro proverbio arabo, è più bello del silenzio. Credo di aver incontrato per la prima volta un silenzio vissuto come dimora in Bab al-Shams (La Porta del Sole), dello scrittore libanese Elias Khoury. Non vi dico nulla della storia, ma se lo leggerete non vedrete mai più il silenzio nello stesso modo. Dico vedrete il silenzio richiamando un verso di Sergio Corazzini, quando scriveva che “Noi siamo il silenzio che vede e che ascolta: il visibile silenzio”. “Lo sai che prego? Mia nonna diceva che pregare è stendere le nostre parole come un tappeto per terra. Sto stendendo le mie parole perché tu ci possa camminare sopra. E allora, perché non ti alzi?”: la splendida traduzione di Bab al-Shams a opera di Elisabetta Bartuli, per Einaudi, mi ha trasmesso il senso di cosa deve aver significato, per Elias Khoury, dare al silenzio una tale forma permeante da renderlo davvero una presenza, una dimora come gli ha insegnato la lingua araba.

 

Di recente ho scoperto un poeta iracheno, Ghareeb Iskander, che del silenzio ha fatto uno dei tòpoi della sua opera poetica, non celando una certa amarezza. “Sono più di un giorno / più di una notte / ma il mio silenzio è unico / senza colore” – “Dico e non dico / questo è il silenzio; il suo significato ci deruba momento dopo momento” – “Le lacrime che erano santo patrono dell’isolamento, si sono arrampicate su noi in silenzio”. Forse una delle note più dolorose legate all’assenza di voce è quella che ci ha lasciato Mahmoud Darwish, col suo Silenzio per Gaza, in cui la descrive “senza gola”. “Sono i suoi pori a parlare attraverso il sudore, il sangue, e i fuochi”. (Potete leggerla qui tradotta in inglese da Sinan Antoon). Uno dei miei poeti preferiti, Abu-l-‘Ala al-Ma’arri (973 – 1058), ha dedicato alcune quartine proprio al silenzio, e a come questo si lega alla verità: “Ciò che è sbagliato si proclama sempre a gran voce / e viene aggiogato con forza a una folla sconfinata / ma la verità è sussurrata solo a pochi / che la seppelliscono viva senza sudario. / Quando tutti fanno silenzio, tu vuoi parlare.  / Ma resta in silenzio mentre ragliano; il suono Saggezza ti ammonisce: ‘Se vuoi essere nel giusto / Allora sii diverso da tutti gli altri, e fa’ a modo tuo'”.

Claudia Avolio

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