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Le rivolte democratiche messe alla prova da Daish

Di Samir Ghezlaoui. El Watan (22/10/2014). Traduzione e sintesi di Carlotta Caldonazzo

Lunedì scorso a Parigi l’organizzazione “Il Manifesto delle Libertà” ha organizzato un dibattito dal titolo Le rivolte democratiche messe alla prova da Daish (conosciuto in Occidente come ISIS). Un fenomeno che ha infranto le speranze democratiche suscitate in Medio Oriente dalle rivolte iniziate nel 2011, sfociate quasi tutte nell’instaurazione di nuovi regimi che rappresentano la volontà di potenza di aspiranti imperi regionali e mondiali.

L’organizzazione, che dal 2004 milita contro l’integralismo islamico, ha invitato intellettuali e attivisti arabi a discutere eziologia e sintomatologia della sindrome Daish, che “con al-Qaeda ha in comune la vocazione internazionalista e con i talebani il legame con il territorio”. Questa la sintesi della storica Sophie Bessis, che considera i cartelli del jihad un vero e proprio “stato totalitario, che ha conquistato terreno”, caratterizzato da una “visione oscurantista dell’Islam” e “sostenuto economicamente dalle petromonarchie che comprano il silenzio delle potenze occidentali”.

A spianare la via all’avanzata di Daish è stata certamente l’inconsistenza dei governi iracheni dal 2003 e dalla deriva delle proteste siriane in guerra civile a sfondo confessionale. “Il principale responsabile di quello che succede in Iraq”, secondo la scrittrice libanese Dominique Eddé “è l’ex presidente USA George W. Bush”, ma l’intera vicenda, se non fosse una tragedia, sarebbe una farsa, resa grottesca dalle immagini dei droni della coalizione internazionale contro Daish che tentano di distruggere armi e mezzi inviati dagli stessi paesi che la costituiscono.

L’aspetto più preoccupante tuttavia è il successo della propaganda dei cartelli del jihad. Daish, secondo Eddé, “ha reclutato e continua a reclutare molti giovani e ha convinto gli abitanti di diverse regioni in Iraq e in Siria”. Anche in questo, secondo la giornalista e attivista siriana Hala Kodmani, il successo di Daish rappresenta la sconfitta delle “democrazie occidentali, che non hanno mai sostenuto le alternative democratiche” nella regione. L’unico aspetto positivo, aggiunge Kodmani, sono gli spunti di riflessione sui rapporti tra religione e politica. I cartelli del jihad infatti si oppongono tanto alle forze laiche che alla galassia variopinta dell’Islam politico.

Altro tema del dibattito è stato il ruolo della Turchia. Per l’economista e politologo turco Ahmet Insel, Ankara è “completamente paralizzata”, pur cambiando ripetutamente posizione e strategia dall’inizio del conflitto in Siria. All’inizio, spiega, caldeggiava la trattativa politica con il presidente siriano Bashar al-Assad, poi ha offerto sostegno e armi all’opposizione senza andare troppo per il sottile su probabili (poi reali) derive islamiche radicali. Infine si è assestata sull’ostinata richiesta di deporre il regime di Damasco, ponendo questa come condizione necessaria per l’intervento contro Daish in Siria. Un atteggiamento ondivago che sottende il timore che l’unione strategica tra Curdi si trasformi nell’anelito a realizzare rivendicazioni territoriali sopite. Secondo lo scrittore iraniano Karim Lahidji, la Turchia è un paese islamico-nazionalista, nostalgico della potenza ottomana e preoccupato soprattutto di guadagnare e mantenere la propria supremazia sulla regione. “È una guerra ideologica”, ha aggiunto, in cui anche l’Iran ha un certo ruolo, soprattutto perché sostiene Assad, Hezbollah in Libano e gli sciiti in Iraq.

Samir Ghezlaoui è il corrispondente di El Watan a Parigi.

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