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Ripensare la crisi egiziana

Scontri egittoDi Khalil al-Anani. Ahram online (17/08/2013). Traduzione e sintesi di Angela Ilaria Antoniello.

La crisi in corso in Egitto mostra un ambiente profondamente diviso con una polarizzazione ideologica, identitaria e politica in cui tutte le parti coinvolte stanno annegando in una cultura di autoritarismo e in pratiche prepotenti e di esclusione – specialmente quelle al potere.

Quello che è successo 3 luglio non è stato solo un colpo di stato militare contro un regime che aveva perso la sua ragion d’essere a causa del suo autoritarismo, della mancanza di visione e senso politico. Si è trattato, piuttosto, di un confronto tra i più antichi e più forti schieramenti politici in Egitto: gli islamisti e l’istituzione militare. Di conseguenza, la crisi attuale è molto più profonda di una controversia tra un regime deposto che cerca di rimanere in vita a tutti i costi e un altro regime che non ha alcuna legittimità (un colpo di stato militare sotto copertura popolare) o legalità (omicidi di massa e repressione politica degli avversari).

Il nodo della crisi è duplice: in primo luogo, l’assenza di una visione politica innovativa che possa mettere fine all’attuale situazione di stallo, non solo da parte della Fratellanza e dello Stato, ma anche da parte di altre forze esterne ed interne. In secondo luogo, la mancanza di fiducia tra le parti.

Lo Stato, al centro del quale c’è l’istituzione militare, sta umiliando politicamente e punendo collettivamente una determinata fazione politica, i Fratelli Musulmani, ma anche altre sfumature dell’Islam politico. Prima della dispersione dei sit-in, lo Stato ha offerto alla Fratellanza Musulmana nient’altro che il porre fine volontariamente alla mobilitazione o l’andare incontro alla soppressione e alla morte.

Ora, nessuna persona ragionevole pensa che i Fratelli musulmani e gli altri gruppi islamisti possano accettare un ritorno al pre-25 gennaio. Questo perché la Rivoluzione del 25 gennaio ha rotto la barriera di paura in cui erano costretti gli Egiziani, quindi non è possibile per loro di rinunciare alle libertà e ai diritti per i quali hanno pagato un prezzo elevato. D’altro canto, non si tratta solo della Fratellanza ma anche di altri gruppi islamisti perseguiti dallo Stato negli ultimi trent’anni e che non permetteranno che ciò accada di nuovo.

Lo Stato sta basando i suoi calcoli su due fattori: primo, il relativo isolamento e disorientamento della Fratellanza in cui sembra che la priorità sia la sua stessa sopravvivenza; secondo, il relativo sostegno pubblico del regime attuale nel confronto con la Fratellanza. Tuttavia, il regime sembra dimenticare che i Fratelli Musulmani del 2013 non sono gli stessi degli anni ’80 e ’90 e del primo decennio del millennio. Stiamo parlando di un segmento sociale e demografico chiave, difficile da controllare o reprimere senza una reazione contro il regime e chi detiene il potere.

Dal punto di vista Fratelli Musulmani, la loro posizione attuale verte su due punti: continuare la mobilitazione, se non per il ritorno alla “legittimità” (ripristinare Mohamed Morsi, la Costituzione sospesa e il Consiglio della Shura), almeno per prevenire un ritorno alla difficoltà, alla brutalità e alla corruzione dell’era Mubarak. Poi, fare affidamento su un colpo di stato contro un colpo di stato che genererebbe divisioni all’interno dell’establishment e del governo provvisorio. Ciò rafforzerebbe la Fratellanza e il suo potere di negoziazione con lo Stato.

Ma la Fratellanza ha ignorato due questioni fondamentali: in primo luogo, la mobilitazione da sola senza trattative e compromessi non potrà mai risolvere la crisi. Al contrario, può essere una giustificazione per la soppressione, l’esclusione e l’isolamento. In secondo luogo, qualsiasi divisione all’interno dell’attuale governo – seppur improbabile – avrà ripercussioni negative anche per i Fratelli Musulmani, per lo Stato e la società a causa della violenza che ne scaturirebbe.

Di conseguenza, vi è un urgente bisogno di riconsiderare la crisi egiziana, concentrandosi su due cose: in primo luogo, la crisi non deve essere ridotta ad una lotta tra i Fratelli Musulmani e l’esercito perché è una battaglia tra uno Stato autoritario oppressivo, da un lato, e ampi settori sociali e movimenti che cercano di cambiare le azioni politiche e di questo Stato, dall’altro. In secondo luogo, non si può pensare che chi è al potere oggi rappresenti una minaccia minore per la democrazia e il futuro del Paese rispetto a coloro che erano al potere qualche settimana fa. Entrambi si preoccupano solo dei propri interessi.

 

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