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Riguardo il fallimento della politica araba

politica regione araba

Di Talal Sulman. As-Safir ( 13/01/2016). Traduzione e sintesi di Carlotta Castoldi.

La regione che noi chiamiamo, con speranza o desiderio, “la patria araba” sta vivendo una situazione senza precedenti di disgregazione, mancanza di leadership e carenza di solidarietà, senza distinzione tra i Paesi ricchi e quelli poveri: i paesi ricchi dissanguano le loro risorse finanziarie, mentre quelli poveri perdono la loro stabilità e la loro unità interna. Non era mai successo che il sangue dei popoli di questa regione ricoprisse la terra con tanta abbondanza, senza peraltro che ci siano dietro grandi obiettivi degni di questi sacrifici gratuiti.

Sono cadute le istituzioni, anche se simboliche, che riunivano le leadership arabe in un vertice annuale ed il conflitto tra molte di esse è arrivato ad un punto di rottura totale, se non alla guerra diretta con gli aerei, come nello Yemen, o alla guerra per procura, come nel caso della Siria.

Perfino i Paesi che non sono impegnati in guerre contro “i loro fratelli” o “i loro vicini” arabi, come l’Algeria e il Marocco, fuggono dai fuochi del Mashreq e se il Marocco salvaguarda un tipo di solidarietà simbolica con l’Arabia Saudita, questa scelta è motivata dalla volontà di protezione dei troni, più che dagli interessi condivisi.

Gli arabi mancano del ruolo dell’Egitto, impedito dai suoi problemi interni, soprattutto economici.

L’Iraq ha perso il suo peso politico, militare ed economico con le avventure militari di Saddam Hussein, nella guerra contro l’Iran e nella miserabile invasione del Kuwait, ed è diventata terra di guerra tra le componenti settarie, vedendo inoltre l’inasprirsi del conflitto separatista dei curdi.

La Siria, che entra nel sesto anno di guerra, è diventata il teatro della tragedia attuale, dando vita a diversi tipi di organizzazioni terroristiche, tra cui quelle portavoce di slogan islamisti. È possibile contare almeno cinquanta organizzazioni di combattenti, che utilizzano armi tra le più letali, provenienti da diverse fonti tra cui alcuni Paesi del Golfo, in primis il Qatar e l’Arabia Saudita, che hanno armato alcune organizzazioni combattenti separatesi da Al-Qaeda, come il Fronte al-Nusra e Daesh (ISIS), che è cresciuto in Siria prima di espandersi in Iraq.

La guerra si è estesa con scontri ed esplosioni periodiche in alcune parti del Libano, nella sua capitale Beirut e nelle sue periferie, fino ad arrivare nel Maghreb (specialmente in Libia, dove Daesh ha delle basi, e in Tunisia) e ha superato i confini del mondo arabo, fino a colpire il cuore di Parigi ed alcune parti d’Europa.

In Egitto, i Fratelli Musulmani hanno approfittato della mancanza di organizzazione di milioni di ribelli, senza un piano, senza una guida, senza una visione politica unita, tentando di cogliere l’opportunità per prendere il controllo sul governo di tutte le istituzioni statali, obbligando l’esercito all’intervento per evitare il rischio di caos e scontri e finendo nella fase di transizione a cui stiamo assistendo in questi giorni con le elezioni parlamentari che mancano di elettori, forse a causa della lunga disoccupazione politica che ha consumato coloro che erano candidati a svolgere un ruolo vitale, e coloro che sono usciti dai vecchi partiti e che hanno perso i riferimenti culturali idonei ad affrontare i problemi dell’attualità così radicalmente diversi da quelli delle epoche precedenti.

Ma a velocizzare il fallimento dell’esperienza dei Fratelli Musulmani ha contribuito il loro prendere a modello l’esperienza turca, senza considerare la differenza delle circostanze ed il chiaro contrasto tra la religiosità egiziana e quella dei fratelli turchi, che hanno un programma rodato e godono della protezione degli Stati Uniti e di un rapporto speciale con il nemico israeliano.

La volontà araba di cambiamento è stata presa d’assedio: sono fallite le rivolte arabe per molte ragioni, prima fra tutte l’assenza di leader qualificati e la mancanza di un programma politico chiaro e definito. Questo fallimento ha aperto la porta alle forze di reazione rappresentate dal vecchio regime, per fare un contro colpo di Stato sostenuto da tutti i movimenti ostili sia in patria che all’estero, e per fare in modo che queste forze tornino ad avere la loro posizione nel nuovo regime, considerandole adeguate al dialogo con “il mondo” ed in particolare con le sue istituzioni finanziarie, tutto ciò sotto la protezione dell’America  (la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale) e di come l’Arabia saudita e i Paesi del Golfo che hanno delle condizioni politiche nella fornitura di prestiti, sovvenzioni o donazioni.

È chiaro che questo fallimento incoraggia le forze conservatrici, proprietarie di numerose ricchezze e capaci, perciò, di imporre le loro condizioni e l’adattamento delle forze per il cambiamento.

E così si rivelano coloro che possiedono enormi capacità di influenzare il cambiamento in altri paesi ma questo non vuol dire che  chi le detiene ha aderito al sindacato dei disperati: il cambiamento è inevitabile perché questa è la logica della storia e della necessità.

Talal Sulman è un giornalista libanese.

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