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Rifugiati in Tunisia: vite sospese

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Di Amal Bint Nadia. Nawaat (24/09/2015). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo.

La maggior parte dei residenti nel campo di Choucha, un campo di fortuna allestito alla frontiera tra Tunisia e Libia, sono tornati nei loro Paesi d’origine. Alcuni hanno avuto il privilegio di ottenere lo status di rifugiato in uno Stato del Nord. Un piccolo gruppo, meno fortunato, rimane ancora apolide. Una decina di loro sono stati detenuti per 9 giorni al Centro di accoglienza e orientamento di Ouardia. Vengono immediatamente respinti alla frontiera algerina dalle autorità tunisine, all’insaputa delle ONG internazionali e locali.

Alla fine del giugno 2013, L’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) ha deciso di chiudere il campo. La sua attività di considera conclusa, nonostante le centinaia di richiedenti asilo che si sono rifiutati di lasciare il posto. Ufficialmente ‘migranti irregolari’, cercando più volte di fare appello al governo tunisino e alla società civile per fare pressione sull’UNHCR. Sperano “di vedersi concesso l’asilo un Paese terzo, per non essere più destinati alla detenzione a cielo aperto del campo”.

Costretti a vivere nella precarietà, senza che i loro diritti vengano riconosciuti, i migranti del gruppo di Choucha organizzano spesso dei sit-in per attirare l’attenzione dell’UNHCR e del governo. Lo scorso 24 agosto, una decina di persone si sono raggruppate davanti alla sede dell’Unione Europea a Berges du Lac, a Tunisi. Sono stati arrestati dalla polizia e sono finiti al centro di detenzione di Ouardia. Sono stati pestati dalle forze dell’ordine. Né l’avvocato, Samia Jellassi, né il direttore esecutivo del Forum tunisino per i diritti economici e sociali (FTDES), Alaa Talbi, sono stati autorizzare ad accedere al dossier.

Lo scorso 1° settembre, all’alba, alcuni poliziotti di frontiera hanno derubato 10 richiedenti asilo. Tra di loro, l’attivista nigeriano Bright O Samson, che ha avuto giusto il tempo di avvertire la militare italiana Martina Tazzioli prima che le autorità tunisine gli confiscassero il telefono. Dopo l’accaduto, Bright ha saputo che i rifugiati sono stati trasferiti alla frontiera algerina e che hanno bisogno di aiuto. Sul web e nella rete di aiuti ai migranti in Tunisia scoppia la polemica e si condanna l’indifferenza delle organizzazioni internazionali di fronte ai metodi arbitrari usati dalla polizia. Maltrattati dalle forze dell’ordine e minacciati con le armi, gli espulsi sono stati obbligati ad avanzare verso il confine con l’Algeria.

“Hanno passato la notte errando. L’indomani mattina, le guardie di frontiera algerina gli hanno dato tempo 5 minuti per andarsene, minacciandoli con le armi”, indica Saber Snoussi, un militante associativo. Nel tardo pomeriggio del 2 settembre, gli espulsi sono riusciti a rimettersi in contatto con gli attivisti. Si dirigevano verso Tunisi su una macchina a noleggio.

Anche se la Tunisia è firmataria della Convezione di Ginevra del 28 luglio 1951 relativa alle modalità secondo le quali uno Stato deve concedere lo status di rifugiato alle persone che lo richiedono. È l’UNHCR a occuparsi della gestione delle richieste d’asilo: l’agenzia si occupa dei dossier legali dei migranti e decide se emettere o meno dei certificati che riconoscono lo status di rifugiato.

Dopo più di vent’anni, alcuni rifugiati, soprattutto palestinesi e iracheni, vivono con difficoltà in territorio tunisino. Il diritto di soggiorno non gli concede il diritto al lavoro, né l’accesso alle cure mediche né all’istruzione. Vivono in un sistema parallelo e dipendente dall’UNHCR e dal suo partner in Tunisia, la Mezzaluna Rossa.

Nell’ottobre 2011, l’Unione Europea ha attivato un Programma Regionale di Protezione, mirato a “gestire i flussi di rifugiati in cooperazione con i Paesi non membri nei quali i rifugiati fanno domanda d’asilo”. La Tunisia è al centro di questo programma, vista la posizione strategica che il nuovo campo di Choucha l’aveva consacrata come Paese di transito sulle rotte migratorie verso l’Europa. Visto che dei tre obiettivi raccomandati dal programma, cioè installazione in un Paese UE, integrazione locale, ritorno al Paese d’origine, i primi due non sono difficili da realizzare, esso ha somigliato più a un consolidamento della politica disumana del ricondurre i migranti alla frontiera.

Con l’appoggio dell’UNHCR, il Centro di studi giuridici e giudiziari del ministero della Giustizia tunisino ha messo a punto, nell’estate 2012, un progetto di legge sull’immigrazione. Tuttavia, esso non è ancora passato al vaglio del parlamento. Nel 2013, per l’implementazione della legislazione sull’asilo, l’UNHCR ha cambiato strategia e ha proposto un progetto di legge sulla protezione internazionale, anch’esso caduto nel dimenticatoio.

Dal giugno 2013, dopo la chiusura del campo di Choucha, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) ha proposto allo Stato tunisino di emettere dei permessi di soggiorno umanitari per le centinaia di migranti clandestini. “Il governo era d’accordo. Hanno chiesto che i richiedenti andassero a registrarsi al ministero dell’Interno per concedergli i permessi. Purtroppo, i migranti registrati non hanno ricevuto nulla. L’approccio proattivo delle autorità non è andato a buon fine, per delle ragioni che non si capiscono”, dice Hélène Le Goff, project manager all’OIM.

Amal Bint Nadia è una giovane giornalista tunisina attiva nella società civile.

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