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Requiem per Tangeri?

TangeriDi Houda Louassini. El País (24/03/13). Traduzione di Alessandra Cimarosti.

“Tangeri è davvero il polso del mondo, come un sogno che si estende dal passato al futuro, una frontiera tra il sogno e la realtà, che mette in discussione la realtà dell’uno e dell’altro. Qui nessuno è ciò che appare”. (William Burroughs, 1954).

Ogni volta che mi ricordo della mia città natale, vedo la sua luce tenace. Appare avvolta nello splendore, grazie all’indulto che si concede alle reminescenze dell’infanzia, quando l’età adulta ci sazia di delusioni. Tangeri non è una città qualsiasi; la sua impronta trascende la nostalgia di un passato ingenuamente glorioso e si traduce in un radicato sentimento di appartenenza ad un unico luogo.

Gente colorata e variopinta, gente di Tangeri di diverse confessioni e origini, transitavano per le sue strade bianche. Li univa la scelta o il destino di condividere questa terra di miscele, porto ancestrale aperto ai viaggiatori. Qualsiasi esiliato trovava a Tangeri il proprio rifugio.

Un’altra particolarità era il suo status linguistico; si parlava e mescolava l’arabo, l’ haquitìa – il dialetto spagnolo giudaico – lo spagnolo, il francese, l’inglese e l’italiano. Si cambiava lingua a seconda dell’interlocutore. “A Tangeri, il poliglotta era chi dominava da 5 lingue in su”, diceva Carlos Nezry.

È mia intenzione parlare del passato per richiamare l’attenzione sul declino accelerato di una società emblematica. La nostra società multiculturale, aperta e cosmopolita è in via di estinzione. L’ondata islamista a Tangeri si propaga con una velocità allarmante. Da qualche anno, tornare a Tangeri è gioia e dolore; gioia per il ritorno a casa, dolore per il fatto che non si riconoscono più gli spazi dell’infanzia e ci si rende contro che è in atto una mutazione sociale. In un recente viaggio, ho sentito l’animosità dell’altro da che ho calpestato il suolo. Il tassista che mi ha portata a casa dall’aeroporto, ha insultato, per tutto il percorso, tutte le donne che non indossavano un hijab. Ho creduto opportuno ricordargli l’hadith del Profeta che raccomanda ai “buoni musulmani” di abbassare lo sguardo di fronte ad una donna. Affrontare la strada è uno dei momenti più duri. Una donna si sente assediata dalle occhiate degli uomini che insultano in modo sempre più veemente. A questa persecuzione si aggiungono le occhiate delle donne con l’hijab. È l’occhiata insolente di chi si crede in possesso della verità, di chi ha la certezza di essere tra gli eletti di Allah. Ogni volta, vedo sempre più donne coperte, vestite con la abaya: un grande mantello nero e un velo che copre il viso.

Ne ha risentito anche la gioia di vedere la mia famiglia, perché questo fenomeno è arrivato anche in essa. Le mie cugine adesso indossano l’hijab, sempre più presto: a 18 anni o anche prima. Le madri sono della generazione degli anni ’70. Quei favolosi anni di apertura, quando i venti della libertà soffiarono anche sul Marocco, grazie alle rivolte studentesche del ’68 e ai movimenti di liberazione della donna. Le mie zie gridavano allora, con le loro minigonne stampate a fiori coloratissimi, “No alla guerra, si all’amore”. Le foto e gli album di famiglia sono testimoni di quell’ epoca. Sfortunatamente, anche le mie zie sono state afferrate dall’ondata regressiva e repressiva e si sono convertite a questo Islam oscuro e risentito. Si è andato a formare un muro tra di noi; non è più possibile nessuna comunicazione con esse.

Gli ottimisti del mio paese ripetevano che il radicalismo islamico non avrebbe mai trionfato nella società marocchina. Beh, si sbagliavano. Il salafismo si è intrufolato nelle viscere della società, grazie ai predicatori wahabiti delle catene televisive dei paesi del Golfo che hanno invaso ogni casa; e anche grazie al lavoro subdolo, da qualche decennio, degli imam istruiti in Arabia Saudita. Questi predicatori, autentici pappagalli dei propri benefattori (come alcuni sauditi che hanno costruito moschee a Tangeri per farsi perdonare i propri eccessi notturni nei propri palazzetti) hanno consolidato la dottrina salafita tra i giovani e i meno giovani.

I movimenti islamisti sono sempre più forti. Si organizzano in associazioni di beneficenza, guidate da personaggi ricchi o sovvenzionate da membri più discreti, alcuni dei quali hanno accumulato fortune multimilionarie con il contrabbando di droghe o con altre attività illecite. I partiti islamisti sono molto presenti nella società civile e muovono i fili di associazioni molto attive. Le proprie riunioni possono contare circa mille partecipanti. Hanno i mezzi e la logistica e il pretesto  è celebrare atti caritatevoli. Dopo aver proiettato diapositive di attività con bambini bisognosi, effettuate grazie alle proprie donazioni, predicano e moltiplicano i seguaci.

Tangeri si è trasformata in una città di immigrazione e di esodi rurali. Prolifera una classe sociale modesta che lavora nelle fabbriche e risiede nei sobborghi e in quartieri insalubri. L’Islamismo ha incontrato il suo ambiente favorevole all’interno di questa popolazione, sensibile ad una voce che parla della corruzione dell’apparato governamentale e politico, che denuncia l’ingiustizia sociale e le grandi disuguaglianze nella società marocchina. I musulmani che non si trovano d’accordo con i radicali non hanno voce in capitolo e la censura che impone questo Islam tenebroso è riuscita a zittire gli oppositori. Fino a quando ci lasceremo terrorizzare da questi apostoli dell’oscurantismo?

Con la sua rivelazione, il Profeta fu un innovatore indiscutibile del suo tempo; riuscì ad esempio, a cambiare la situazione legale della donna concedendole dei diritti rivoluzionari per il contesto socioculturale della penisola arabica di allora. Quattordici secoli più tardi, gli islamisti pensano che tale status possa essere ancora valido per la società attuale. Nemmeno il Profeta, nei suoi peggiori incubi, avrebbe immaginato che il futuro della società musulmana avrebbe continuato a seguire tali precetti. L’Islam ha il suo tempo e il suo luogo, disse il Profeta. E il Corano esorta i credenti a riflettere, dibattere e ragionare. Disgraziatamente è un’attività poco praticata.

Coloro che in Marocco credono nella libertà religiosa, nella laicità e nella dignità umana dovrebbero smettere di sentirsi spaventati e intimoriti dal virus dei fascisti dei nostri tempi. Non si sta facendo abbastanza per frenare la valanga.

Per quanto riguarda la sinistra, essa è rappresentata da un’élite francofona che non vuole vedere la realtà; gli intellettuali brillano per la propria assenza nei dibattiti sociali. Senza dubbio, negli ultimi due anni, un certo risveglio ha smosso le forze della sinistra grazie al Movimento del 20 Febbraio, guidato da una gioventù attiva e vicina al popolo.

Ma non voglio nemmeno essere ingiusta. Riconosco gli sforzi per concedere di nuovo a Tangeri qualcosa del suo splendore urbanistico. Mi rendo conto che i monumenti si possono restaurare e si può tornare a curare i giardini. Magari un giorno si potranno restaurare le mentalità, al fine di far germinare i semi di convinzioni più serene e pacifiste. E che la personalità di Tangeri, il cui slogan era “vivi e lascia vivere” possa rinvigorirsi.

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