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Il rapporto di Amnesty International e le responsabilità di Assad

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Mentre il mondo sembra pronto ad accettare la presenza di Bashar al-Assad al potere, Amnesty International porta alla luce ancora una volta gli orrori perpetrati dal regime

Di Anwar al-Bunni. Al-Hayat (10/02/2017). Traduzione e sintesi di Antonia M. Cascone.

Probabilmente, per i siriani, il rapporto di Amnesty International non aggiunge molto a quanto già sanno e a quanto hanno già vissuto e sofferto per mano del terribile regime dittatoriale. Tutti, in Siria, sanno che quanto contenuto dal rapporto non è che la punta dell’iceberg di crimini di cui la storia non è mai stata testimone prima d’ora. I siriani hanno conosciuto questo regime sin dal suo arrivo al potere nel 1970, sanno delle brutalità e dei crimini perpetrati in Libano dal 1976 e degli orrori sofferti in maniera diretta negli anni Ottanta ad Hama, Aleppo e Jisr al-Shughur. Non è un caso, infatti, che il rapporto sia stato pubblicato proprio in concomitanza con il 35° anniversario del massacro di Hama del 1982, nel quale, secondo varie stime, furono assassinate più di 40.000 persone, mentre altre 17.000 risultano ancora disperse.

Tuttavia, il rapporto di Amnesty del 6 febbraio 2017 si distingue per diversi fattori: in primo luogo, è stato pubblicato dalla più grande e affermata organizzazione per i diritti umani, che gode di un certo grado di fiducia e credibilità; in secondo luogo, si basa su un gran numero di testimonianze delle vittime e si fonda sulla competenza di avvocati che si occupano di violazioni di diritti umani; in terzo luogo, si caratterizza per l’estrema precisione e chiarezza nell’esposizione di quanto sta davvero accadendo ai detenuti civili e agli oppositori pacifici nelle carceri siriane, anche in confronto ai precedenti rapporti sui crimini di tortura pubblicati dalla stessa Amnesty e da altre organizzazioni.

Ma, forse, la caratteristica fondamentale del rapporto è la sua ferma condanna e l’attribuzione della diretta responsabilità di questi crimini a Bashar al-Assad, che, d’altronde, non potrebbe in alcun modo negarla. Anche qualora avesse autorizzato il ministro della Difesa, la responsabilità diretta farebbe comunque legalmente capo a lui in persona, soprattutto in quanto nel decreto non è menzionata la possibilità di delegare. La maggior parte delle persone giustiziate nella prigione di Sednaya, la più grande prigione militare in Siria, è stata condannata a morte dai tribunali militari, la cui istituzione fu prevista dal decreto legislativo 109 del 1968: l’articolo 8 di questo decreto, a proposito della condanna a morte, delega la ratifica della condanna al capo dello Stato, mentre le distanti disposizioni sono affidate al ministero della Difesa. L’articolo 7 prevede inoltre che le disposizioni del tribunale militare non possano essere eseguite se non dopo la ratifica dell’autorità competente.

In base a ciò, il decreto conferma al di là di ogni dubbio che Bashar al-Assad abbia personalmente firmato le condanne a morte di più di 13.000 detenuti solo nel carcere di Sednaya, e questa è solo una piccola parte di ciò che sta accadendo nei centri di detenzione siriani nei quali, secondo le stime delle organizzazioni per i diritti umani, sono stati condannati circa 60.000 detenuti, e di circa 100.000 non si ha più alcuna informazione.

Non meno importante è la tempistica nella pubblicazione di questo rapporto, con l’escalation delle pressioni della Russia, che incalza i Paesi confinanti e l’opposizione armata e politica affinché accettino la presenza di Assad al potere, e l’affiorare di una risposta, seppur debole, a questi sforzi, recentemente emersa dalle posizioni di Turchia e Giordania. Tutto ciò è inoltre accompagnato dai tentativi di alcune potenze europee di riallacciare i rapporti con il sistema criminale, resisi manifesti con la visita di due delegazioni parlamentari, quella francese e quella belga.

Questo rapporto, dunque, arriva come uno schiaffo in faccia per chi si fa promotore di questo pensiero: accettare, o ignorare, questi crimini, significa spalancare le porte ai criminali, e sarà ancora una volta il popolo a doverne affrontare le conseguenze.

Anwar al-Bunni è un avvocato siriano, da decenni in prima linea per la difesa dei diritti umani, e Presidente del Centro Siriano per gli Studi e le Ricerche Legali.

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