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Il potere e il rischio di una narrativa autentica

narrativa araba
I narratori appartenenti alle minoranze sono in aumento. La sfida per il pubblico sta nel vederli come creativi a pieno titolo, non come novità

Di Amal Awad. The New Arab (06/03/2018).

Gli scrittori arabi sono perseguitati dai libri con donne velate.

Di recente, durante un panel di autrici di origini arabe in un festival letterario in Australia, una donna ci ha chiesto se conoscessimo la trilogia di Jean Sasson su una principessa saudita, nota decine di anni fa per la sua dubbia autenticità e ricostruzione della vita in Arabia Saudita.

Alcune di noi la conoscevano, ma nessuna gli aveva mai dato importanza, erano solo racconti pervasi da una fantasia esotica e destinati a un pubblico occidentale di curiosi.

In genere, non è la nostra narrativa autentica che interessa il pubblico, piuttosto la nostra narrativa raccontata attraverso la loro prospettiva. Ecco cosa soffoca una buona storia; non siamo padroni delle nostre esperienze, è che siamo meglio attrezzati per raccontarle eppure, spesso, non per venderle.

Le domande del pubblico erano rivolte soprattutto a soddisfare una sete di curiosità nei confronti della donna araba. Alcuni mi hanno interrogato sulla situazione della donna, uno sugli arabi che vivono in Israele (rifiutandosi di dire “palestinesi”) domandando chi avesse la peggio, se i palestinesi o le donne che vivono in Arabia Saudita; un altro mi ha chiesto di spiegargli come si sentivano le donne musulmane oltre 1400 ani fa riguardo a come erano trattate.

Questo è il rischio che affronti nel raccontare le tue storie, amplificando voci inedite. La tua verità diventa foraggio.

Il punto è che, accanto al tentativo di abbracciare la ‘diversità’, c’è una forma scomposta di progresso. Perché la diversità ci disconnette, enfatizza le differenze e crea un senso di unicità che ostacola invece che aiutare la comprensione. Le donne arabe non si possono permettere il lusso di raccontare storie senza che queste assumano un significato precostituito.

 

Leggendo il nuovo libro, Arab Women Voice New Realities, sono orgogliosa che le donne stiano tirando fuori le loro voci. Eppure, mi preoccupo anche che, raccontando le loro verità, queste donne diventino una merce per gli estranei assetati di esotizzare ulteriormente le esperienze delle donne arabe.

Questo è un punto cruciale da considerare: quando una storia sulle tristi realtà della vita è vera, chi è il narratore? Qual è lo scopo di quella storia?

Quando ero piccola, era frequente vedere parodie sulle minoranze etniche in Australia, spesso fatte dalle persone all’interno di quella stessa minoranza. Nick Giannopoulos, un greco-australiano, ha deciso di appropriarsi del termine razzista wog, usato in Australia per descrivere persone appartenenti a minoranze etniche, in genere del Mediterraneo, usandolo per il suo show televisivo.

Lo spettacolo era divertente, ma la differenza era che essendo mainstream le persone non greche ridevano insieme ai greci. Era in un certo senso un permesso allo scherzo, ma in un paese che stava sperimentando il suo multiculturalismo, era anche un atto potente. L’auto-parodia tolse il pungiglione dal termine wog.

Questo è forse il motivo per cui la commedia diventa uno sbocco per molti autori. È un modo accessibile per decomprimere gli scontenti e alleggerire lo scontro attraverso il linguaggio universale dell’umorismo. Io l’ho fatto con il mio primo romanzo e molti altri continuano a raccontare le loro esperienze in modo tale da togliere al pubblico il peso del pregiudizio attraverso la leggerezza. Questo perché il pubblico riderà felicemente con te mentre fai dell’autoironia ma può essere un’alleanza difficile. Con una narrativa troppo seria, invece, rischi di addentrarti nei giudizi e nei numerosi pregiudizi che circondano la tua cultura e il tuo patrimonio.

 

Spero che ora ci stiamo davvero spostando oltre. Spero che le nostre esperienze, adattate in narrazioni fittizie o meno, abbiano lo spazio di narrazione che meritano per informare e connettere le persone.

Spero che, se ridiamo di noi stessi, non lo facciamo per attirare la simpatia delle persone ma perché le nostre voci possano superare l’equilibrio di luce e oscurità – l’umorismo mescolato con il pathos della vita.

Amal Awad
è una giornalista e scrittrice che vive a Sidney. Il suo ultimo libro, Beyond Veiled Clichés, esplora le vite delle donne arabe.

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