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Perché le cause del terrorismo vanno ben oltre la religione

musulmani anti terrorismo
Sebbene l'opinione pubblica sembri vedere nell’Islam radicale la causa del terrorismo, la psicologia che porta alla violenza trova il proprio fondamento ben più in là della religione. Spetta a tutti noi soffocare il fanatismo, non solo ai musulmani

Di Wael Haddara. Middle East Eye (13/06/2017). Traduzione e sintesi di Emanuele Uboldi

Dopo gli attacchi di Londra, si è riaperto il dibattito se sia l’Islam la causa delle fiammate di estremismo violento. Per quanto Trump e seguaci ne siano convinti, il ricorso a bigotteria e xenofobia è la via più semplice rispetto a un’analisi fattuale come quadro di riferimento per corrette decisioni politiche. Decenni di studi sulla non-violenza possono aiutarci più che l’allarmismo.

La connessione “all’Islam radicale” pare ovvia: tutti gli assalitori erano legati in qualche modo a Daesh (ISIS), alcuni erano stati in Siria.  Ma questi, come molti altri, non passerebbero l’esame di leva per entrare tra le fila dei “militanti islamisti”:

  • Salman Abedi (Manchester) festeggiava con vodka-Red Bull e marijuana;
  • Mohamed Buohlel (Nizza) “non pregava, gli piacevano le donne e la salsa”, oltre alla piccola criminalità;
  • Omar Mateen (Orlando) e Salah Abdessalam (Parigi) bevevano alcool in pubblico e frequentavano regolarmente locali conosciuti come luogo di incontri per omosessuali;
  • Michael Zihaf-Bibeau (Ottawa) era noto come piccolo criminale, tossicodipendente e, come Abdessalam, aveva anche scontato una periodo in prigione.

La storia di molti assalitori nei Paesi occidentali segue questo profilo: infanzia problematica, non osservanza dei dettami religiosi e piccola criminalità. Questo porta molti musulmani, in linea con il pensiero di Olivier Roy, a considerare questi terroristi non veri musulmani e che l’Islam non abbia un ruolo nella loro violenza.

Una (mia, N.d.T.) ricerca dimostra che non esista un solo percorso di radicalizzazione. La motivazione ideologica che porta alla violenza (come quella elaborata da Daesh) può essere solo uno dei fattori accanto a: ingiustizia sociale e politica; mancanza di alternative per fronteggiare questa ingiustizia; mezzi e risorse per organizzare un attacco, oltre alle motivazioni personali.

La teoria della gestione del terrore, sviluppata negli anni ‘80 negli Stati Uniti e supportata da oltre 400 studi, può aiutarci a comprendere le motivazioni personali: dato che tutti desideriamo vivere, la presa di coscienza della propria mortalità può portare a un terrore esistenziale paralizzante. Possiamo superare questo terrore negando la nostra morte (“troppo giovane”, “sono in salute”, ecc.), ma sostanzialmente crediamo nella nostra immortalità, letteralmente (vita ultraterrena) o simbolicamente (opere, azioni per i posteri).

Ma per poter riuscire a controllare il terrore della morte, ognuno deve credersi degno di queste ricompense e lodi. In pratica, affinché il credo nella vita ultraterrena o il lascito ai posteri possano alleviare il terrore della morte, ognuno deve sviluppare un’autostima che gli permetta di credere di aver vissuto una vita sufficientemente dignitosa per essere salvata o ricordata dagli altri.

Chi ha una bassa autostima (cioè non ha superato la paura della morte) reagisce attaccando chi non condivide la stessa visione.

Come si fa a inserire l’Islam nell’equazione?

Se si può definire “religiosità” quella dei terroristi di cui sopra, la si può inquadrare come la “religiosità estrinseca” di Gordon Allport, che serve come elemento di identificazione di un gruppo sociale. La religiosità intrinseca ci definisce come persone – è fine a se stessa. È quest’ultima che, secondo la teoria della gestione del terrore, ci protegge dall’odiare e attaccare altri gruppi. Non solo per l’Islam, ma anche altre religioni servono a questo fine, come riporta uno studio del MI5.

Sono i credo fondamentali dei testi sacri che riducono l’odio verso gli altri: Bouhlel e gli altri, che si sono approcciati alla religione tramite la propaganda di Daesh, non si basano sulla stessa illuminazione spirituale. Quindi, di fronte a crisi personali, cercano di riguadagnare fiducia in se stessi tramite atti spettacolari (di terrore).

Parte della soluzione potrebbe essere una politica volta a ridurre disuguaglianze, isolamento e ingiustizia.

Daesh usa la religione per creare il paradigma del “o noi o loro”. Misure restrittive rafforzano solamente questa visione binaria e i populisti come Trump paiono non avere percezione di quanto il loro comportamento rafforzi proprio quella visione che sostengono di voler combattere. Questo stesso comportamento può indurre una generazione di giovani musulmani ad avvicinarsi alla fede non in termini di illuminazione spirituale, ma come un’identità estrinseca che serve a rafforzare la propria posizione in un mondo ostile. Questo gioca a favore di Daesh.

Sebbene l’opinione pubblica sembri vedere nell’Islam radicale la causa del terrorismo, la psicologia che porta alla violenza trova il proprio fondamento ben più in là della religione. Spetta a tutti noi soffocare il fanatismo tramite inclusione e rispetto, non solo ai musulmani.

Wael Haddara, educatore, professore associato di Medicina alla Western University in Canada e personalità di spicco della comunità islamica canadese. Nel 2012-13, è stato consulente del Presidente egiziano Mohamed Morsi.

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1 Comment

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  • Una domanda o dubbio che sta’ alla base del ragionamento sopra esposto… Quale religione fa’ credere che compiendo spettacolari atti (di terrore) nelle vita terrena si possa guadagnare “il paradiso” o una vita ultraterrena infinita?.
    La risposta e’ abbastanza ovvia.