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Obama in Medio Oriente: parole, solo parole

Articolo di Giusy Regina

“Le parole sono azioni” diceva il filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein. Ma per Obama, a quanto pare, sono e rimangono soltanto parole e la prova evidente è il viaggio di quattro giorni appena conclusosi in Medio Oriente. Il presidente statunitense è tornato a casa infatti lasciandosi dietro proprio un fiume di parole.

Il suo viaggio è iniziato a Tel Aviv e a Gerusalemme, dove si è rivolto agli israeliani, soprattutto ai giovani. Ribadendo il suo sostegno incondizionato allo stato ebraico, Obama ha saputo toccare le corde giuste tanto che Ha’aretz lo ha rinominato “a Jews president”, un presidente ebreo. Dall’olocausto al diritto alla sicurezza, dal coraggio all’antico diritto di essere una nazione. Nulla di nuovo sotto il sole dunque.

Riguardo alla questione calda del conflitto israelo-palestinese invece qualcosa di nuovo c’è. La speranza di una mediazione giusta tra le parti si è sgretolata, consolidandosi invece la certezza che l’appoggio di fatto ad Israele si contrappone alle semplici parole ai palestinesi. Secondo quanto detto dal presidente, la pace, giusta e necessaria, non deve essere vista come una concessione che Israele fa alla Palestina, bensì l’unico modo che esso ha per preservare i due pilastri su cui si basa: democrazia ed ebraicità.

Se Obama ha fatto breccia nei cuori degli israeliani però, non ha certo ottenuto lo stesso risultato in quello dei palestinesi. E ne era consapevole. Già l’accoglienza, come si poteva immaginare, è stata fredda, contornata da manifestazioni a Gaza e a Ramallah, guidate da Hamas, Fatah, jihad islamica e sinistra marxista, gruppi con forti divergenze ideologiche ma  che si sono trovate a condividere la profonda delusione riguardo tutte mosse del presidente USA.

Con le sue parole inoltre non solo ha portato alla disperazione più totale, ma si è azzardato addirittura a condizionare e a fare pressione sui palestinesi al fine di far loro accettare i negoziati senza precondizioni. Si passa quindi dalla semplice delusione all’umiliazione più totale, togliendo anche quel l’unica carta ancora rimasta ai palestinesi, ovvero rifiutare gli insediamenti israeliani.

La situazione è stata descritta molto bene da Le Monde quando parla della differenza tra il discorso che Obama aveva fatto al Cairo nel 2009 e l’ultimo, in cui viene a mancare una frase estremamente importante. Quattro anni fa infatti il presidente Obama diceva: “Intendo perseguire personalmente questo risultato con tutta la pazienza e la dedizione che tale compito richiede”. Ma da allora le priorità della sua politica sono cambiate.

Sin dai primissimi passi del suo secondo mandato, infatti, il presidente americano ha dato sentore di voler prendere le distanze: nell’illustrare la sua agenda era stato vago e inconcludente su tutte le vicende mediorientali. E l’unica cosa concreta che viene ora fuori dalle sue parole è la grande rinuncia: la Casa Bianca non vuole più occuparsi della questione israelo-palestinese, lasciando campo libero al governo israeliano di gestire la situazione come meglio crede.

Una cosa abbiamo capito finalmente da questo viaggio: quando Obama gridava al The best is yet to come, il meglio deve ancora venire, non si riferiva certo al Medio Oriente.