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I messaggi di Israele dal Golan alla Palestina

Golan
Alture del Golan

Di Matanis Shehadeh. Al-Araby al-Jadeed (23/04/2016). Traduzione e sintesi di Antonia Maria Cascone.

Lo scorso 17 aprile, Israele ha annunciato ufficialmente che la sua occupazione del Golan siriano sarebbe stata definitiva, ma, in effetti, non aveva alcun bisogno di dichiarazioni ufficiali per chiarire di non aver intenzione di restituirlo o per cominciare il suo processo di trasformazione topografica e demografica. Già nel 1981, infatti, lo Stato israeliano emanò la Legge sulle Alture del Golan, che, in pratica, annetteva l’altopiano e tentava di imporre l’identità israeliana agli abitanti siriani. Da quel giorno, il numero dei coloni si è triplicato, dai 7.000 del 1983 ai 21.000 del 2015. Israele ha, intanto, intrapreso grandi progetti turistici nel territorio, ha cominciato a estrarre petrolio e rafforzato la presenza militare. Questo annuncio solleva, dunque, una serie di questioni, tra le quali: perché quest’annuncio è arrivato solo adesso? Qual è la dimensione politica e strategica di questa regione? E qual è il messaggio politico sotteso a questa decisione?

Anzitutto, quest’annuncio sancisce con decisione la fine dell’equazione “terra in cambio di pace”, che ha regolato, dagli anni ’70, le relazioni tra Israele e i paesi confinanti. Secondo questa equazione, è necessario che Israele restituisca le terre occupate dei paesi arabi circostanti, della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, per ottenere un trattato di pace e la normalizzazione dei rapporti. Questa sorta di scambio, però, dipende fortemente dalla presenza di regimi arabi stabili, in grado di gestire i trattati di pace e proteggere i confini. Questa realtà è cambiata con lo scoppio delle rivoluzioni arabe del 2011, la presa di potere da parte di movimenti estremisti e reazionari e la nascita di faide interne. La caduta di Mubarak e i Fratelli Musulmani al potere sono stati un campanello di allarme per Israele, che si è reso conto di non potersi più affidare ad un qualsiasi regime arabo per garantirsi protezione sul lungo periodo, cosa che stride con la sua ideologia della sicurezza.

In secondo luogo, il conflitto arabo interno e quello arabo-iraniano hanno spianato il terreno per l’emergere di interessi comuni tra Israele e i principali paesi arabi, cosa che può portare a relazioni strategiche ed alleanze non formali, senza più il bisogno di scambiare la terra con la pace, come sta accadendo, ad esempio, con l’Arabia Saudita.

Questo annuncio si inscrive, poi, nel contesto di un ritorno al fronte terrestre come componente essenziale dell’ideologia militare israeliana. Per la sua posizione geografica, il Golan riveste un ruolo strategico da cui Israele non può prescindere, e che non può sostituire con alcuna innovazione militare, specialmente in seguito ai cambiamenti della situazione in Siria.

In ultimo, lo Stato israeliano sembra provare semplice indifferenza nei confronti delle possibili reazioni mondiali e arabe ed è cosciente di poter rovesciare la situazione geopolitica, senza l’autorizzazione o l’approvazione dei principali paesi sullo scacchiere internazionale, per non parlar del fatto che nessuna critica si è udita all’interno di Israele stessa.

È in quest’atmosfera che Tel Aviv ha annunciato l’imposizione dello status quo, che diventa status permanente, con l’annessione della zona C e la nomina di esponenti dell’Autorità Palestinese a gestire, simbolicamente, le zone A e B, solo per le questioni di routine.  Ciò implica, inoltre, il perpetuarsi della separazione tra Cisgiordania e Gaza, l’estradizione di Gerusalemme Est dai negoziati per una soluzione politica e l’impossibilità di ritorno per gli sfollati.

Il protrarsi delle divisioni interne e l’assenza di una strategia unitaria palestinese, insieme alle guerre civili e alle spaccature del mondo arabo, non fanno che rendere più semplice, per Israele, prendere simili decisioni, che hanno di fatto decretato l’occupazione della Cisgiordania, per sempre.

Matanis Shehadeh è un giornalista palestinese.

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