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Media arabi: allineatevi o spegnete tutto

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Di Rana Sabbagh. Mada Masr (06/12/2015). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo.

Dopo essersi fatti cullare dolcemente dalle rivolte della Primavera Araba, i giornalisti e i presentatori arabi hanno deciso di appoggiare i loro governi e i loro leader, diventando i loro portavoce. Se non lo avessero fatto, avrebbero rischiato licenziamenti, molestie, minacce e carcere – grazie alle nuove leggi anti-terrorismo introdotte in Egitto, Tunisia, Giordania, Bahrein e Arabia Saudita. Oltre a una serie di restrizioni sul web, un mucchio di politiche repressive e un rigurgito autoritario in Egitto e altrove, queste leggi hanno dato il colpo di grazia alla libertà d’espressione in maggior parte della regione.

Ma perché il fuoco della libertà di espressione e dell’indipendenza dei media si è man mano estinto? La risposta è deprimente: giornalisti ed editori si sono resi conto che manca il sostegno da parte del pubblico. Ogni giorno di più, i cittadini della regione araba stanno rinunciando alle loro libertà fondamentali e ai loro diritti democratici in cambio di niente più che vaghe promesse di stabilità politica e prosperità economica. Tuttavia, quelle promesse non sono state mantenute e i sono quegli stessi cittadini a lamentare l’aumento dei prezzi del cibo, la scarsa assistenza sanitaria e il basso standard dell’istruzione. Il fatto è che la gente ha più paura dell’instabilità generale che della repressione dello Stato, con la quale ha imparato a convivere. Non sorprende dunque se il giornalismo indipendente e libero non se la passi bene.

Molti giornalisti egiziani hanno ripreso le abitudini del pre-2011. Non hanno problemi ad ammettere in pubblico i loro legami con le autorità, la loro dedizione nel servirle e il loro senso del dovere nei confronti dell’esercito, soprattutto i presentatori TV, che restano i padroni dell’opinione pubblica in un Paese con un altissimo tasso di analfabetismo.

Dopo aver goduto di un certa libertà tra il 2011 e il 2013, in Giordania i giornalisti e gli editori oggi sanno di dover evitare certi argomenti – come ad esempio la lotta contro Daesh (ISIS), i processi per terrorismo e le critiche contro leader arabi che finanziano Amman. Secondo un sondaggio condotto dal Centro per la Difesa della Libertà dei Giornalisti (CDFJ), il 95% di 250 giornalisti intervistati ha ammesso di auto-censurarsi per “troppa paura” di criticare il re, le forze di sicurezza o i leader tribali.

Il continuo caos in Yemen non rende la vita facile ai giornalisti: almeno 40 sarebbero stati rapiti dal colpo di Stato da parte degli Houthi, che hanno preso il controllo del territorio e anche dei media.

Nonostante in Tunisia oggi si vanti un alto grado di libertà nei media, la corruzione resta una grande minaccia alla libertà d’espressione: sebbene il governo ora ci pensi due volte prima di censurare un giornalista, è anche vero che la maggior parte delle testate private sono di proprietà di membri di partiti politici o di uomini d’affari.

Quanto al Bahrein, è stato direttamente etichettato come “non libero” nel 2014 e nel 2015 dalla Freedom House.

In Siria, i giornalisti locali e internazionali sono bersaglio del regime, di Daesh e di altri gruppi jihadisti. Dal marzo 2011, hanno perso la vita almeno 110 reporter e più di 80 sono ancora incarcerati. In Libano, dove giornali e televisioni sono usati come strumento della propaganda di politici e uomini d’affari, la crisi siriana ha rafforzato la polarizzazione tra i media filo-sciiti e quelli che invece sostengono la coalizione sunnita-saudita.

In Libia, la libertà di informazione è costantemente minacciata dalle continue ostilità.

Di conseguenza, la narrativa dello Stato è sempre più spesso l’unica narrativa possibile. “Cosa c’è di male a sostenere il governo?”, si chiedono i giornalisti. “Perché dovremmo piangere sul latte versato?”. La mia risposta è molto semplice: è il vostro lavoro.

Rana Sabbagh è la direttrice esecutiva di Arab Reporters for Investigative Journalism (ARIJ).

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