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Madrine indesiderate dei diritti delle donne arabe

Diritti delle donne nel mondo araboDi Lubna Azzam. The Daily Star (28/01/2013). Traduzione e sintesi di Cristina Gulfi

Nella storia recente del mondo arabo, i diritti delle donne hanno spesso richiesto il patrocinio di un’élite femminile per essere inseriti nell’agenda nazionale e poi implementati. Di conseguenza il movimento femminista nel mondo arabo ha avuto uno sviluppo anomalo: in Egitto, ad esempio, la presenza di una “madre della nazione” nella persona di Jihan Sadat o Suzanne Mubarak ha impedito alle donne comuni di far valere i propri diritti dinanzi al governo, dando l’impressione di non tenerci abbastanza.

Negli anni Cinquanta Nasser diede il via ad una serie di riforme sociali e politiche per l’uguaglianza delle donne, con il riconoscimento del diritto di voto nel 1956 e l’integrazione nel mondo del lavoro. Lo sforzo di modernizzazione non investì però la sfera privata e il diritto di famiglia. Da allora il movimento femminista ha potuto contare sul sostegno di donne appartenenti alle caste al potere, che hanno promosso alcune iniziative informali come la cosiddetta Legge Jihan. Promulgata nel 1979, in seguito è stata dichiarata incostituzionale anche per il contenuto alquanto impopolare. Permetteva infatti alle donne di chiedere il divorzio qualora il marito avesse sposato una seconda moglie.

Un tentativo di riforma più ampio del diritto di famiglia risale invece al 2000 con la Legge Khul, che riconosce alle donne il diritto di divorziare in modo unilaterale e no-fault. Un grande passo in avanti verso la parità di genere. Lo stesso anno è stato istituito il Consiglio Nazionale delle Donne, caratterizzato da un approccio top-down alla questione dei diritti delle donne, con Suzanne Mubarak come segretario generale.

La prospettiva futura dei diritti delle donne non è molto rosea, soprattutto alla luce del disinteresse dei Fratelli Musulmani nel promuovere la parità di genere. L’articolo 36, che sancisce l’uguaglianza tra uomo e donna, è stato rimosso dalla bozza costituzionale sottoposta a referendum lo scorso dicembre. Ma ci sono anche altre controversie in seno all’assemblea costituente, come dimostra il ritiro di Manal al-Tibi, rappresentante delle rivendicazioni femministe e garante per i diritti umani. Dai dibattiti emergono infatti proposte sconvolgenti, come quella di ridurre l’età minima per il matrimonio delle ragazze a 9 anni o di eliminare la possibilità di divorzio unilaterale e senza colpa per le donne. Se queste fossero state coinvolte nella definizione dell’agenda sui loro diritti, le questioni all’ordine del giorno sarebbero state ben altre.

Le donne arabe sembrano dunque avere bisogno di una portavoce ai vertici della politica. In questo senso “Umm Ahmad”, come ama essere chiamata l’attuale first lady egiziana Naglaa Ali Mahmoud, non è di buon auspicio per le egiziane. La signora Morsi incarna alla perfezione l’ideale islamico di donna relegata al ruolo privato di moglie e madre. Potrà mai essere lei la paladina dei diritti delle donne e della parità di genere? È una figura agli antipodi rispetto a quella di Zeinab al-Ghazali, fondatrice dell’Associazione delle Donne Musulmane, donna tutta vita pubblica e politica che rifiutò di unirsi ai Fratelli Musulmani di Hasan al-Banna per il timore di perdere la sua autonomia.

La situazione attuale è un’opportunità per le donne arabe di manifestare il loro punto di vista sulla scena politica e di dimostrare che possono prendere in mano il potere, rivestire cariche pubbliche e chiedere un contributo maggiore alla società civile. È giunto il momento di portare la lotta ad un livello ulteriore, organizzandosi politicamente in modo formale e informale. Senza l’aiuto di una madrina d’élite.

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