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Maalouf e la nostalgia del futuro

di Javier Valenzuela (El Pais 23/10/2012). Traduzione di Claudia Avolio.

Amin Maalouf, a Madrid per presentare il suo ultimo romanzo “I disorientati”, segue con preoccupazione le notizie del Libano, suo paese natale. “Quali sono gli ultimi sviluppi?”, chiede appena ci stringiamo la mano in un ufficio della Casa Árabe. “Pare che si moltiplichino gli appelli alla calma, che nessuna delle parti voglia lanciarsi in un conflitto incontrollabile,” gli rispondo, e aggiungo: “Per il momento”. Maalouf si schiarisce la gola e dice: “Già, ogni volta si fa più difficile isolare il Libano dal conflitto siriano, i rischi che vi si estenda sono enormi e crescenti”. Lo scrittore è visibilmente intristito. Per ciò che succede ora in Libano e per ciò che va avanti in questi ultimi anni in Europa e in tutto il mondo. E lo si nota anche ne “I disorientati”. In questo romanzo Maalouf racconta una storia che potrebbe essere la sua. Quella del ritorno di Adam al proprio paese natale, qualcuno che ne è rimasto venticinque anni fuori, e dunque la storia del ritrovarsi coi suoi amici di gioventù e l’evocazione comune di tutte le cose che si sono perdute e tutti i tradimenti che si sono commessi. La storia del constatare che tutte le esistenze sono solo un esilio.

Alla fine del romanzo si dice che la vita di Adam si trova “in sospensione, come il suo paese, come questo pianeta, come tutti noi”. Sì, il mondo è in sospensione e si amplia la sensazione che andrà a finire per cadere dal lato sbagliato. Per la prima volta nella propria esistenza, la generazione di Maalouf, quella che nacque a metà del XX secolo, ha l’impressione che potrebbe vivere gli orrori che hanno subìto i loro genitori. “Mi ricordo spesso di Stefan Zweig il quale, vista l’evoluzione dell’Europa del suo tempo, giunse alla conclusione che quel mondo non era più il suo,” dice Maalouf. “Sentiva che non c’era alcuna scappatoia, al punto che finì per suicidarsi dopo un evento che oggi ci sembra assai secondario: la caduta di Singapore, nel 1942. Ora in molti condividiamo la sensazione che non ci sia luce alla fine del tunnel, però c’è, anche se non la vediamo. Tuttavia, è possibile che dobbiamo vivere anni di pazzia e violenza prima di giungere alla saggezza? Può darsi. Ci vollero l’orrore degli anni ’30 e la Seconda Guerra Mondiale perché l’Europa dicesse ‘basta’. Può essere che il destino dell’umanità sia doversi schiantare contro il muro per sentire così la sua durezza e cercare un’altra uscita.

Nel 2010 Amin Maalouf ha firmato una petizione perché il premio Principe delle Asturie della Concordia fosse concesso ai mori espulsi dalla propria terra nei secoli XVI e XVII. Così non è stato, ma quest’anno ha ricevuto il premio Principe delle Asturie delle Lettere. Nato a Beirut nel 1949, stabilitosi in Francia per sfuggire alle guerre che hanno dissanguato il Libano negli anni ’70 e ’80, è scrittore nella lingua di Molière, vincitore del Goncourt nel 1993 e membro dell’Accademia Francese dalla scorsa estate. I suoi saggi e i suoi romanzi sono stati sempre coerenti nel difendere il meticciato in democrazia, e le molte identità con le quali realizziamo la maggioranza. Il suo primo grande successo, il romanzo Leone l’Africano, parla di un abitante di Granada, Hasan ben Muhamad al Wazzan, che dovette abbandonare la propria città perché vi si imponeva a sangue e fuoco la volontà uniformatrice dei Re Cattolici e della loro Inquisizione. Cinque secoli più tardi, le cose non sono molto diverse.

Qui e là risorgono i fondamentalismi religiosi e nazionali, e svaniscono le speranze che il mondo accetti gli individui come Maalouf, al contempo libanese e francofono, di origine greco-cattolica e difensore dei valori laici e democratici, arabo ed europeista, mediterraneo e cittadino del mondo. “Vivere insieme è ogni volta più difficile,” sospira. “Nel mondo arabo la situazione delle minoranze si fa sempre più precaria e c’è una polarizzazione comunitaria, come quella che oppone sciiti e sunniti, che non si conosceva ormai da secoli. E in Europa aumenta l’insofferenza verso i musulmani. Lo vediamo anche in società con una grande tradizione d’apertura come Danimarca e Olanda, che si sta convertendo in tensioni e sospetti. Questi due movimenti si alimentano a vicenda, e la gente come me si sente ogni volta più inquieta, per non dire disperata”.

Un respiro profondo e prosegue: “Però io non mi arrendo. Vivere insieme è molto complicato, va gestito con un certo tatto, lucidità e perseveranza. Non è qualcosa che si produce spontaneamente, e neppure offre una soluzione valida una volta per tutte. Ma è indispensabile per evitare l’incubo verso cui ci stiamo dirigendo”. “Forse ci troviamo già, in quest’incubo,” gli dico, “Oltre all’ascesa dello spirito tribale, soffriamo la legge della giungla nelle relazioni economiche e sociali”. “Sì, le società europee vivono una profonda crisi legata alla retrocessione dei valori di solidarietà e bene comune. Gestire la convivenza della gente che proviene da culture diverse è esplosivo. Ma dobbiamo farlo”. “Come?” “Anzitutto dobbiamo capire in che condizioni viviamo insieme, cos’è permesso e cosa non lo è. Il fatto di accettare gli altri non vuol dire accettare qualunque cosa. Io non sono a favore del multiculturalismo inteso come far vivere chiunque nel suo ghetto e a suo modo, sono invece a favore dell’integrazione. Sono per il rispetto della dignità dell’essere umano e del progresso sociale, non delle tradizioni. L’Europa deve andare incontro ai cittadini, non organizzare i rapporti tra le tribù”.

Ne “I disorientati” c’è un momento in cui qualcuno dice: “Il paese di cui ho nostalgia non è il passato, è il futuro”. Maalouf crede che la sua generazione abbia motivi di nostalgia. “Si è nostalgici di tutti i sogni che si sono avuti e che non si sono realizzati,” dice. “E ci sono ideali indispensabili che noi abbiamo avuto e ora sono respinti: quelli di solidarietà ed uguaglianza. Ci troviamo in un mondo in cui la disuguaglianza è promossa come una forma di modernità. Siamo ancora all’indomani della sconfitta del comunismo: si continua a pensare che tutti i valori che sono stati predicati, e poi travestiti, dall’esperienza comunista, debbano essere invertiti. Questa è una ricetta per la distruzione del tessuto sociale. Bisognerebbe che il pendolo tornasse al centro: è andato da un estremo all’altro e dovrebbe tornare al centro”.