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Libia: le conseguenze di un intervento

fajr Libia

Di Ziad Akl. Ahram Online (30/08/2015). Traduzione e sintesi di Angela Ilaria Antoniello.

All’inizio di questo mese, Mohamed al-Dairi, il Ministro libico degli Affari Esteri, ha dato quello che potrebbe essere meglio descritto come un “discorso emotivo” nel corso di un vertice urgente sulla Libia convocato dalla Lega Araba. “Esortiamo ad intervenire” è stato il messaggio principale che al-Dairi ha cercato di trasmettere.

È indubbio che la crescente minaccia di Daesh (ISIS) in Libia è allarmante, non solo a livello nazionale, ma anche per la sicurezza regionale e internazionale. Inoltre, le capacità militari libiche non sono sufficienti per orchestrare un attacco contro una minaccia alla sicurezza evasiva e non convenzionale come quella che Daesh pone in Libia. Ma la necessità di agire, può renderci ciechi e spingerci a non considerare meticolosamente le conseguenze di un intervento in Libia, sia esso esclusivamente arabo o sotto l’egida di una coalizione internazionale?

Lo scenario attuale è molto simile a quello del 2011. La comunità internazionale, soprattutto gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, videro in Gheddafi una minaccia ai loro interessi in Libia predisponendoli a un intervento militare. Ci furono anche considerazioni legate ad aspetti umanitari e democratici, eppure la storia degli interventi internazionali nel mondo arabo in generale dimostra che questi fattori non hanno avuto la priorità data ai più tangibili interessi politici ed economici. Tuttavia, ciò che è importante notare è il fatto che la comunità internazionale non agì se non sotto un ombrello di legittimità fornita attraverso la Lega Araba.

Anche se l’intervento della NATO in Libia nel 2011 è stato necessario e decisivo per limitare le capacità delle forze di Gheddafi e abilitare la rivoluzione, non si cercò alcuna strategia di uscita. Purtroppo, le conseguenze negative di quell’intervento stanno ancora plasmando gli esiti politici della rivoluzione libica. Alla luce di ciò, se davvero è necessario un nuovo intervento bisognerebbe evitare di commettere gli stessi errori, visto che la situazione è anche più complicata. L’intervento non riguarderebbe solo Daesh, ma anche la contesa politica tra Tobruk e Tripoli dal momento che potrebbe finire per favorire una parte rispetto all’altra. In tal caso, il dialogo politico sarà clinicamente morto e il conflitto politico esistente, invece di essere risolto consensualmente, prenderà un’altra forma.

Inoltre, la nozione “forza panaraba” è in realtà molto più problematico di quanto non sembri essere. Questo concetto risale agli anni ‘50 e ‘60, la sua risurrezione si celebra in un contesto caratterizzato in primo luogo dalla nostalgia, però lo stato attuale delle cose nel mondo arabo e le interazioni tra i diversi stati arabi non sono costruite su questioni nazionali, ma su interessi reciproci.  Si tratta di interessi limitati che produrranno alleanze politiche costruite esclusivamente su interessi comuni momentanei. Pertanto, quello che potrebbe essere pubblicizzato come nazionalismo arabo o un’azione umanitaria in Libia sarà di fatto un intervento costruito sugli interessi politici degli stati partecipanti, e quindi inevitabilmente approfondirà l’intensità del già acuto conflitto politico che interessa la Libia.

La domanda che ci dobbiamo porre non è che tipo di intervento militare predisporre in Libia per affrontare la minaccia Daesh. La domanda che dobbiamo porci è come può essere impiegata questa minaccia nel quadro del dialogo politico libico per produrre un accordo efficace tra le parti, e che tipo di strumenti saranno necessari affinché tale accordo venga implementato.

La situazione in Libia oggi è allarmante per la sicurezza regionale del Medio Oriente e del Nord Africa, ma l’intervento straniero deve contemplare una strategia a lungo termine che abbia come obbiettivo la stabilità futura del Paese e andare oltre il qui e ora.

Ziad Akl è ricercatore presso il Centro di Studi politici e strategici Al-Ahram.

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