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Libano. Paura nei campi profughi della Beqa’… E le Nazioni Unite si nascondono

La chiamata alla “mobilitazione” si è diffusa fino ai campi per rifugiati siriani nella regione della Beqa’

di Lucy Parseghian, Al Modon, (22/03/2020). Traduzione e sintesi di Chiara Russo

L’ammasso nelle tende

Si può parlare qui della crescente attenzione delle comunità locali e della loro paura di diventare un focolaio di diffusione del coronavirus nella Beqa’, ma anche dei residenti del campo che temono che il virus possa essere portato dall’esterno.

La maggior parte dei libanesi considera i campi dei rifugiati siriani un terreno fertile in cui potrebbe esplodere l’epidemia del coronavirus. Dopo che su Facebook è stato pubblicato un post sulla necessità di evitare gli assembramenti dei rifugiati davanti al bancomat, a cui hanno fatto seguito le linee guida per la prevenzione, si sono verificati episodi di razzismo da parte di alcune persone che hanno definito i rifugiati “corona”.

In realtà, finora non sono stati registrati casi di coronavirus nei campi, in cui dilagano però casi di comune raffreddore che colpiscono gran parte dei bambini e che sono principalmente legati alla mancanza dei più semplici mezzi di riscaldamento. I bambini, poi, escono all’aperto a piedi nudi e senza vestiti che li proteggano dal freddo.

L’ordine “Resta a casa” potrebbe non essere del tutto appropriato se rivolto ai rifugiati, costretti a vivere in gruppi che vanno dalle 9 alle 13 persone in media in un’unica tenda e con un solo bagno a soddisfare le loro esigenze. All’esterno delle tende, poi, è difficile impedire di muoversi in spazi così stretti. Oltre alla mancanza di infrastrutture comuni, in particolare l’acqua potabile, i bambini raffreddati si muovono all’aperto vicino alle cisterne d’acqua e le loro mani, che aprono a turno il rubinetto per riempire il loro recipiente, possono rivelarsi una grave minaccia al tempo del coronavirus.

Abbiamo seguito un bambino nella tenda della sua famiglia, che ci ha raccontato delle misure che sua madre ha adottato in casa: impedire loro di toccare qualsiasi cosa prima di lavarsi accuratamente le mani e igienizzarle ogni volta che entrano nella tenda.

La fame e il coronavirus

La madre ci ha informato dei prodotti per la pulizia che ha acquistato nei negozi “a un dollaro” pochi giorni fa. “La vita non è facile”, dice la madre.

A pochi metri di distanza, il negozio di generi alimentari, con più di cinque persone all’interno. Fissano lo schermo della tv, indifferenti di fronte alle misure per impedire la trasmissione: “Siamo morti, morti”, dice uno di loro, aggiungendo: “Qual è la differenza se moriamo di fame o di coronavirus?!”

La chiusura dei valichi

Gli sfollati concordano con le comunità locali sul fatto che le Nazioni Unite non sono state efficienti nell’affrontare la crisi del coronavirus, lasciando nei campi una bomba a orologeria in mezzo alla popolazione in ebollizione, aggravata dalla terribile realtà economica.

Le preoccupazioni per l’epidemia continuano ad aumentare, date le lacune nella copertura sanitaria per gli sfollati. E se la “mobilitazione” imporrà un eccezionale inasprimento della sicurezza nella chiusura dei valichi, gli sfollati si chiedono chi li aiuterà nel caso uno di loro venga infettato dal virus.

Il quadro che si prospetta è nero: alla luce delle voci sull’incapacità del sistema sanitario libanese di coprire i cittadini in caso di scoppio dell’epidemia, quale sarà la situazione se i malati sono “ospiti” siriani?

Lucy Parseghian è una reporter e fotografa libanese, corrispondente di diverse testate giornalistiche e agenzie tra cui l’European Pressphoto Agency (EPA).

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