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Leggere il Qatar attraverso l’architettura: intervista a Serena Mignatti

In copertina, una foto di Speranza Casillo

Nella sua monumentale opera “Città di sale”, Abdel Rahman Munif narra le trasformazioni radicali generate dalla scoperta del petrolio nell’area del Golfo. Il piccolo Emirato del Qatar incarna appieno, sia per le sue dimensioni che per la sua ricchezza, questa grande metamorfosi: un terremoto antropologico, sociale ed economico che ha portato il Paese a saltare la scansione della storia passando nell’arco di quattro decenni dalla civiltà del deserto con i suoi vuoti e silenzi alla modernità sfrenata con i suoi dedali e grovigli.

Serena Mignatti, architetto italiana che in Qatar vive e lavora, ci racconta la sua esperienza qatarina ancora in corso. Un punto di vista che parte dall’architettura per interrogare la storia, la società, la religione e le molteplici sfaccettature di un Paese tutt’altro che semplice.

Innanzitutto, parlaci di come sei arrivata a Doha

Sono quasi tre anni che seguo progetti in Qatar per conto di un famoso studio internazionale, con il quale ho collaborato per diversi anni, e adesso, dopo aver avviato ufficialmente la mia personale attività, seguo la realizzazione di un grosso cantiere per una committenza locale.

Mi ritengo fortunata in quanto ho sempre lavorato in studi che hanno avuto il fulcro delle loro attività principali incentrate su progetti ben lontani dall’Italia.

Ed è cosi che ho viaggiato molto soprattutto fuori dall’Europa, privilegio raro che mi ha permesso di confrontarmi con culture, tradizioni e realtà profondamente diverse dalla mia, intrecciando rapporti personali e di lavoro di notevole interesse e stimolo.

Si, è vero che operare in realtà emergenti, come quella del Qatar, costituisce una buona opportunità, ma al contempo questo pone anche diverse problematiche: dalla concorrenza alla necessità di adattarsi a metodologie di lavoro diverse, dalla legislazione in materia di lavoro al tipo di cultura del lavoro stessa, come riesci a barcamenarti in mezzo a queste complessità?

Il fatto che il Qatar sia una realtà emergente non rappresenta di per sé un problema, bensì una sfida estremamente interessante. La concorrenza è alla base di ogni libero mercato, e se questa è valida e corretta, meglio per tutti, vorrà dire che la città accoglierà progetti interessanti e significherà che noi architetti dobbiamo produrre cose di valore per poter emergere.

Ciò che invece trovo estremamente complesso in Qatar è poter esercitare la libera professione. Non è un caso che uno dei motivi che mi ha fatto esitare fino all’ultimo momento, e ammetto che ad oggi ancora non riesco a fare un bilancio di questa mia esperienza, è l’assenza totale del libero professionismo in questo mercato. Inoltre, spesso nella scelta dei progetti e dei progettisti il metro di giudizio non è la qualità dell’idea bensì la smania di costruire tanto e velocemente, a volte con edifici che hanno la pretesa di stupire, ma che sono costruiti con così poca attenzione da risultare goffi e grotteschi.

Ci sono anche meravigliose accezioni, e mi riferisco agli edifici che architetti come Zaha Hadid, Rem Koolhaas, Jean Nouvel, Toyo Ito, Ieoh Ming Pei hanno costruito e stanno costruendo qui a Doha.

Sono maestosi, iconici, sculture eccezionali che sono già diventate simbolo di questa città, come se facessero parte dell’originario skyline di Doha, sin dall’inizio.

Un’ altra complessità è quella legata al divario culturale che indubbiamente esiste fra i paesi arabi e l’Occidente, professionalmente e umanamente: senti il “peso” di questa diversità culturale e sociale?

Tutt’altro. La diversità è stimolo, condizione sine qua non del vivere, l’elemento fondamentale del sapere. Un’idea nasce sempre dalla diversità, una visione si struttura su di essa.

Bisogna sapersi confrontare con ciò che non conosciamo, e imparare, studiare, osservare, raccogliere quante più informazioni possibili e farle proprie. Immergersi nel contesto islamico non è facile, soprattutto per noi donne, ma se lo si accetta per quello che è, e se con rispetto e pazienza lo si vuole realmente conoscere, si possono fare delle scoperte meravigliose, e si riscopre il piacere dell’accoglienza, del rispetto per l’ospite, per le tradizioni legate alla famiglia, un mondo un po’ artefatto devo dire, ma con un suo fascino profondo. Bisogna senza dubbio munirsi di pazienza, e accettare i tempi, lenti, lentissimi, fatti dai pause, di “forse domani”, di “Inchallah”. Poi a un certo punto accelerano, decidono di agire, e pretendono di avere quella cosa non domani, ma per ieri .

Non è facile, ma è una sfida interessante. Dopotutto siamo architetti e ci occupiamo delle persone, e non possiamo non essere affascinati da come le persone in questa parte del mondo concepiscano la casa, lo spazio pubblico, ogni luogo del vivere.

Il Qatar è un Paese dalla storia recente che ha bruciato le tappe passando in pochi anni ad una modernità sfrenata e forse cancellando molte tracce di quelle che erano le strutture, nel senso antropologico del termine, dominanti in passato. In questo passaggio che valutazione fai della cultura architettonica che prende piede nel Paese?

L’architettura di tradizione arabo-islamica è meravigliosa. Siamo italiani, lo sappiamo bene, basta pensare alla Sicilia, alle contaminazioni che abbiamo a Palermo o a Siracusa o Trapani e in generale nel Sud di Italia.

Il suq, le moschee, i minareti,  le caratteristiche abitazioni a un piano organizzate per ambienti intorno a una corte centrale, fanno parte di una cultura meravigliosa che ben conosciamo, ma che purtroppo in Qatar non la si trova se non in brutte copie costruite negli ultimi cinque, dieci anni. Non esiste qui, perché fino a 70 anni fa la maggior parte della popolazione viveva ancora nel deserto.

La cosa che più mi manca al di là del verde e degli alberi è poter camminare nella città e perdermi nella sua storia. Visitare un edificio, che abbia almeno più di 20 anni, che mi possa raccontare un po’ di più di questo Paese, e della sua gente.

Se pensi che il suq ,centro del mercato e della vita del “locale”, è stato ricostruito ex novo in perfetto stile islamico non più di dieci anni fa. Nonostante sia un grandissimo bluff, ammetto che camminarci e immergerci dentro da una sensazione immensamente piacevole: il trucco sta nel non soffermarsi sui dettagli, ma perdersi tra la folla di qatarini che abitualmente lo popola il venerdì e il sabato pomeriggio.

Ritengo che Doha sia la forma più grande ed estesa di ciò che Marc Auge definiva non luoghi: quei luoghi posti in contrapposizione ai luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. I non luoghi sono prodotti della società della surmodernità, incapace di integrare in sé i luoghi storici confinandoli e banalizzandoli in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. In questo caso Doha non confina alcun luogo storico, non ne possiede per tradizione, e si limita a costruire in maniera compulsiva una realtà finta, con edifici che potrebbero essere in qualunque luogo del mondo, privi di connotazioni specifiche e di richiami legati a una tradizione propria e appartenente alla propria terra. Non solo, penso che ci sia una difficoltà culturale profonda che porta a non saper affrontare, in maniera consapevole, gli spazi dedicati all’uomo quali la piazza, il boulevard, gli spazi verdi rendendo la città un insieme disgiunto di frammenti costruiti non a misura d’uomo.

Non passa inosservato il disinteresse che in questa area geografica si ha per quegli elementi quali acqua, aria, luce, verde, oggi diventati fondamentali e acquisiti di una buona architettura.

I progetti che si stanno sviluppando adesso internazionalmente mettono lo spazio pubblico al centro di tutto, si cerca di eliminare i confini tra interno ed esterno per potere dare all’uomo un benessere in più. In Qatar questo non avviene: lo spazio pubblico per tradizione e cultura è il luogo in cui ci si deve nascondere, se pensi alle donne musulmane che in pubblico devono coprirsi.

Tutto avviene all’interno di hotel, case, centri commerciali e ville, alla ricerca di privacy e fresco. Questo mi sorprende un poco perché sto costatando che al di là dei tre mesi estivi, il resto dell’anno  offre un clima perfetto per poter stare all’aria aperta.

Non so se sia questione di tempo, o se il fattore religioso determini l’approccio schivo nei confronti del prossimo, certo è che la conformazione stessa della città risente di questo approccio di  implosione della socializzazione.

Ogni esperienza di migrazione, a maggior ragione quando il Paese d’approdo è molto diverso dal paese d’origine, racchiude delle possibilità di arricchimento umano e culturale. In questa prospettiva e considerando anche le varie possibilità di interazione che si possono creare nella realtà qatarina ovvero fra stranieri e stranieri e fra stranieri e autoctoni, che sguardo porti sul tuo percorso in questo melting pot?

In città come Doha, Dubai, Abu Dhabi c’è una particolare sproporzione tra nativi e stranieri. Se si pensa che a Doha solo il 20% della popolazione è qatarina, si comprende di quanto complesso e particolare sia convivere con un 80 % provenite da diverse parti del mondo. Si tratta di un concentrato eterogeneo di popolazioni, lingue, usi, costumi che si mischiano e convivono, spesso, e devo dire goffamente, in un territorio nuovo, giovane, ma al tempo stesso estremamente radicato alla propria cultura.

Sono due realtà che rimangono però nettamente separate tra di loro e le distanze aumentano se si pensa che in quell’80% ci sono rappresentanti di ogni luogo, europei, indiani, pakistani, egiziani, africani, siriani, libanesi, che si trovano a condividere una città senza condividerne né gli usi né la lingua.

Si convive in questo insieme scoordinato di persone, una grande arca di Noè a scala urbana che si ritrova a condividere uno spazio comune spesso per caso, spesso per necessità, raramente per scelta.

Tutto ciò toglie un senso di realtà alla città, la rende finta, senza anima, e con un’energia strana, e quello che rimanda e sprigiona è un costante e profondo senso di precarietà e solitudine.

Ma c’è un grande lato positivo: in questo insieme di follia ci si ritrova obbligati a riequilibrare il proprio baricentro e a sintonizzarlo con un mondo ben più ampio di quello italiano, o europeo, che ci dà la dimensione reale di chi siamo e soprattutto ci dà la dimensione reale di cosa sia il mondo.