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Le rivolte arabe e la distanza del Libano

di Elias Dairy (Annahar 16/06/2012). Traduzione di Claudia Avolio

 

Quando le rivoluzioni iniziano a lanciare accuse ai propri figli e ai pilastri su cui sono state erette, rinnegando i princìpi da cui sono scaturite e il coro di slogan e declamazioni che le hanno accompagnate, viene ripetuto il leit motiv che recita: “Nel cambiamento delle nazioni, conserva la testa”. A partire dalla rivoluzione francese – o “la madre delle rivoluzioni” – la gente ha preso a seguire gli sviluppi interni delle rivolte. Tutti attendono il momento in cui i rivoltosi si lancino nel vivo della rivoluzione, atterrando su chi occupa i troni del potere e ne dirige le fila. Ė ormai consueto e familiare che un rivoltoso vada a dormire nelle vesti di leader della sommossa, e al mattino il popolo si risvegli per scoprire che il leader si è mutato in cadavere.

 

Gli appassionati di Storia, e in particolare di Storia delle Nazioni, ricorderanno bene come “la madre delle rivoluzioni” abbia consumato gran parte dei suoi protagonisti, personalità di spicco e beniamini: la schiera di chi è diventato cenere e di chi ha preso il posto di coloro che erano morti. E questo nell’arco di quasi un intero secolo. La rivoluzione bolscevica, dal canto suo, non si è distaccata da tale modus operandi. Soprattutto quando “l’imperatore del proletariato” Joseph Stalin, ha liquidato i membri del comitato centrale – sotto lo sguardo del suo “saggio” Lavrentij Berija e del suo seguito – e ha poi formato i “comitati rivoluzionari”. Stalin li ha incaricati della missione di “epurare la rivoluzione e i suoi ranghi dagli opportunisti, i degenerati, chi tramava in segreto” – ed erano milioni.

 

Già, le rivoluzioni fagocitano i loro figli, chi le guida e le loro nazioni. Le stesse “rivolte” degli ufficiali arabi e dei loro colpi di Stato – che si sono addobbati in veste di “rivolta” e “cambiamento” – hanno fatto dal canto loro ciò che è stato fatto dai rivoltosi delle rivoluzioni vere. E gli ufficiali hanno commesso tutto ciò che è rientra nella definizione di “crimini”: ogni sorta di repressione, vendetta ed assassinio, mutandosi poi in monarchi, capi di Stato, milionari e imperatori. Hanno reso la gente impotente dinanzi al loro operato, spaventata com’era dalla spada del dittatore e dalla barbarie dei suoi affiliati, con lo spettro della fame, la sete e le malattie. Non c’era alcuna Maria Antonietta araba a consigliare loro di “far mangiare al popolo la brioche” se era impossibile ottenere il pane. Ecco, le rivolte arabe sono guidate da un modello simile, in cui qualcuno inizia a fagocitarne i figli, le promesse, gli slogan.

 

Pensiamo a ciò che ribolle negli abissi dell’Egitto, e ciò che vive la Libia con le sue divisioni, l’insubordinazione e la tendenza alla scissione. Quello a cui assiste la Tunisia, con le sue manifestazioni, gli scontri, i suoi focolai e i disordini. Volgiamo lo sguardo allo Yemen coi suoi conflitti interni e le perdite; alle acque in cui versa il Bahrein, trovandosi a nuotare tra i suoi squali e i suoi alligatori. E la Siria? Quel che subisce e sopporta da 16 mesi… Sono tante queste “esplosioni”, e non sono diverse dalle esplosioni violente della natura e dalle eruzioni dei vulcani. Guardano a esse i governanti libanesi e gli arroganti, come se le vedessero sullo schermo della loro tv, prima che li colga il sonno e dimentichino. Poggiando sugli allori del fatto che il Libano è distante da quei focolai. E se ne è allontanato ancora di più quando ha abbracciato la dottrina dell’autodistanziamento. Ma nessuno poi sa quando finisce l’effetto della distanza.