Arabia Saudita News Zoom

L’Arabia (e)Saudita

El Watan, Al Quds al Arabi, Al Masry Al Youm. Sintesi di Carlotta Caldonazzo.

Dall’inizio delle proteste che hanno scosso il mondo arabo l’emirato del Qatar ha tentato di imporsi come potenza regionale, almeno a livello mediatico, sfruttando la rete Al-Jazeera e i suoi contatti con i partiti islamici di area Fratelli Musulmani. I fallimenti in Libia e Siria e il colpo di stato in Egitto rischiano ora di spostare gli equilibri regionali a favore dell’Arabia Saudita. Un cambiamento in realtà frutto di accordi tra i due paesi.

La vittoria dei partiti islamici cosiddetti “moderati” (con l’appoggio di forze politiche più radicali come i partiti salafiti) in Tunisia ed Egitto e il ritorno il Libia degli islamici dall’esilio forzato in Qatar, insieme alla copertura delle proteste da parte dell’emittente Al-Jazeera, hanno garantito al piccolo emirato un’influenza non indifferente nel mondo arabo. Un ruolo che l’Arabia Saudita aveva sottratto qualche decennio fa all’Egitto e che Doha non è riuscita a mantenere, o semplicemente non ha voluto, ritenendo più opportuna una sorta di spartizione dei compiti nel Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), organismo che riunisce le petromonarchie della penisola araba. Unico stato arabo ad aver preso parte all’intervento internazionale in Libia e in prima fila per un eventuale intervento in Siria, il Qatar dunque ha utilizzato il proprio peso mediatico per preparare il terreno a una gestione dei conflitti interni al mondo arabo da parte del  Ccg, i cui interventi più eclatanti si sono registrati in Bahrein e Yemen. Dove gli islamici moderati hanno imposto un minimo di stabilità, come in Tunisia, hanno conservato il posto di comando. Diverso è il caso della Libia, in mano a milizie armate nessuna delle quali è riuscita finora a imporre il minimo controllo del territorio, e dell’Egitto, dove un colpo di stato militare ha rovesciato il presidente Mohamed Morsi e il suo governo a maggioranza Fratelli Musulmani.

Ridurre il rapporto tra Qatar e Arabia Saudita allo scontro tra sostenitori dei Fratelli Musulmani e dei salafiti è errato, sintetizzarlo con la rivalità per la conquista del ruolo di potenza regionale è riduttivo. Parimenti riduttivo sarebbe quindi affermare che Riyadh sta guadagnando punti a dispetto di Doha. È vero che tra i primi a benedire il nuovo governo provvisorio egiziano ci sono Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, con una promessa di aiuti economici per 8 miliardi di dollari: la prima “elargirà” due miliardi di depositi alla banca centrale egiziana, altri due di prodotti energetici e uno in monete sonanti, mentre i secondi hanno “offerto” in tutto tre milioni, di cui uno di fondi di garanzia e due di deposito senza interessi alla banca centrale egiziana. Vale la pena di sottolineare tuttavia che Gamal Bayoumi, segretario dell’Unione degli investitori arabi, ha parlato di rafforzamento dei rapporti economici “con tutti i paesi arabi, Qatar incluso” e che dopo il golpe militare uno dei primi economisti ad attivarsi è stato il presidente del Consiglio per gli affari egiziano-qatarioti.

A sostegno della tesi di un progressivo ritiro nell’ombra da parte della diplomazia di Doha a vantaggio di Riyadh si potrebbero addurre due fatti avvenuti all’inizio di luglio: le dimissioni di Ghassan Heyto, presidente del governo transitorio siriano assai ben visto in Qatar, e la nomina alla guida dell’opposizione siriana di Ahmed Assi Jarba, che gode invece del sostegno di Riyadh. Secondo Ayed al-Manna, analista politico kuwaitiano, la politica mediorientale di Doha si è attestata su posizione più difensive da quando l’emiro Hamad bin Khalida Al Thani ha abdicato in favore del filgio Tamim e il primo ministro Hamad bin Jabr Al Thani è stato messo da parte. Tutto ciò, spiega al-Manna, ha permesso all’Arabia Saudita di riprendersi il suo ruolo guida nel mondo arabo. Più che sulle questioni ideologiche l’attenzione di Riyadh si concentra su come stabilizzare le situazioni dei vari paesi arabi teatro di proteste. Lo dimostrano il suo iniziale sostegno a Morsi e la sua ambiguità nella guerra civile yemenita del 1990 (alleanza con i “comunisti” dello Yemen del Sud contro i nazionalisti del Nord e aiuti ai partiti islamici in funzione anticomunista). Anche il Qatar, dal canto suo, attua nel mondo arabo una politica finalizzata alla stabilizzazione, interesse comune su cui si sono imperniate le consultazioni tra i due paesi, nonostante la differenza di vedute politiche.

Senza dubbio Doha considera con diffidenza la defenestrazione di Morsi in Egitto, soprattutto a causa delle dure critiche subite dalla “filiale egiziana” di Al Jazeera, cui molti rimproverano un legame troppo stretto con i Fratelli Musulmani. L’8 luglio sette dipendenti della sede del Cairo si sono dimessi in disaccordo con la linea editoriale. Fonti interne hanno risposto che “l’emittente si rifiuta di sottomettersi a pressioni e continua il suo lavoro con professionalità, a prescindere dai rapporti di forza in campo”, omettendo di ricordare la fatwa di Yousef al-Qaradawi, predicatore e conduttore della trasmissione “La legge islamica e la vita”, che aveva definito la destituzione di Morsi “non valida e non accaduta”. Sta di fatto che dal colpo di stato Al Jazeera viene guardata con sospetto anche da molti giornalisti egiziani, come si è visto durante una delle prime conferenze stampa tenute dei militari al Cairo, da cui i corrispondenti dell’emittente panaraba sono stati allontanati.

In realtà le rivalità tra Doha e Riyadh, mediatiche (la nascita di Al Jazeera a metà degli anni ’90 ha posto fine alla supremazia dell’emittente saudita Al Arabiya) e politiche (la monarchia saudita baluardo della politica statunitense in Medioriente, il Qatar più vicino alle correnti nazionaliste panarabe), si sono ricomposte nel 2008, in occasione dell’accordo sui confini tra i due paesi. La disputa territoriale si è conclusa a favore del piccolo emirato, ma in cambio l’opposizione alla monarchia dei Saud è scomparsa dagli schermi di Al Jazeera. Altro elemento di pacificazione è l’appartenenza di entrambi al Ccg, che ha ben altri interessi rispetto alle beghe di vicinato o alla lotta per un primato mediatico e ideologico nel mondo arabo. Meglio restare uniti, soprattutto in un periodo di transizione energetica verso gli idrocarburi non convenzionali, che vede emergere nuovi produttori di petrolio e gas, Usa in primis.